Quante volte avremo osservato un tizzone luccicare nel fuoco e ci saremo chiesti il perché di quella luce ardente visibile per lunghi tratti ai nostri occhi. Da un punto di vista fisico avviene che il calore assorbito, sotto forma di energia, agita in una danza frenetica le molecole del legno, creando così l’energia cinetica che noi successivamente rileviamo sotto forma di luce colorata. Secondo il medesimo principio ogni corpo dotato di temperatura propria emette radiazioni, che possono essere rilevate o meno a seconda che si trovino nello spettro dei colori visibili. Esiste pertanto una stretta relazione tra materia, radiazione e calore, messa in evidenza anche dagli esperimenti di Maxwell e di Hertz verso la fine dell’Ottocento. I calcoli teorici della fisica classica di quegli anni prevedevano però che, se riscaldiamo un corpo nero (oggetto cavo, predisposto di un piccolo foro, con pareti interne opache, capace di assorbire quasi la totalità della radiazione elettromagnetica incidente), i raggi ultravioletti avrebbero dovuto emettere un’intensità infinita di energia, cosa che non si osservava negli esperimenti e costituiva un paradosso noto con il nome di “catastrofe ultravioletta”. Fu Max Planck, un matematico e fisico tedesco dal carattere mite, a provare nel 1900 che l’energia assorbita da un corpo nero sotto forma di calore ed emessa successivamente sotto forma di onde elettromagnetiche (luce in sostanza), avveniva a “pacchetti” (battezzati “quanti”, dal latino quantum, quantità) e non con continuità come si era sempre pensato. L’ipotesi di Planck prevedeva che l’energia di un quanto era data semplicemente dalla frequenza di radiazione moltiplicata per una costante. Era la costante di Planck, una nuova costante presente in natura e fondamentale per descrivere tutto il mondo microscopico. Iniziò così la rivoluzione quantistica.
I quanti di radiazione elettromagnetica di Planck non avrebbero tardato a diventare popolari con il nome di “fotoni”. Ciò avvenne grazie ad Albert Einstein, nel 1905, che sfruttò la precedente idea di energia a “pacchetti” nell’effetto fotoelettrico, fenomeno per il quale è possibile l’emissione di elettroni dalla superficie di un metallo grazie all’energia fornita da una radiazione elettromagnetica che incide sulla superficie del metallo (lo stesso principio su cui si basa il funzionamento dei pannelli solari). L’ipotesi di Planck sui singoli fotoni spiegava anche perchè l’energia degli elettroni estratti dipendeva solo dalla frequenza e non dall’intensità della luce incidente. Fu per tale contributo, e non per la relatività generale, che Einstein ricevette il Premio Nobel per la Fisica nel 1921.
Qualche anno più tardi, nel 1911, il fisico neozelandese Ernest Rutherford ipotizzava l’affascinante modello nucleare atomico, che si raffigurava un atomo come un sistema solare in minatura: al posto del Sole si trovava il nucleo (con il protone, scoperto da Rutherford stesso due anni prima), di carica elettrica positiva, e intorno, come dei pianeti nel sistema solare, giravano gli elettroni, la cui carica elettrica negativa compensava quella del nucleo; la forza di attrazione elettrica agiva mantenendo così il sistema in movimento, proprio come la gravità fa orbitare i pianeti intorno al Sole.
L’immagine di un sistema solare in scala microscopica era però tanto attraente quanto insostenibile. Gli elettroni infatti, nel loro perpetuo roteare intorno al nucleo dell’atomo, essendo sottoposti a un movimento accelerato, dovevano necessariamente irradiare onde elettromagnetiche. Però, così facendo, avrebbero perso energia (la stessa che causava le onde emesse), muovendosi inesorabilmente verso il nucleo per pura attrazione elettrostatica. La conclusione era che tutti gli atomi avrebbero dovuto collassare verso il nucleo, cosicchè niente di ciò che vediamo intorno a noi sarebbe dovuto esistere.
Fu di nuovo la neonata e rivoluzionaria fisica quantistica (grazie alle scoperte di Niels Bohr nel biennio 1912-1913) a prevedere che gli elettroni di ogni elemento ruotassero “in eterno” in orbite con distanza prestabilita dal nucleo e con prefissata energia. La rotazione perpetua era giustificata dal fatto che il movimento degli elettroni avveniva su onde stazionarie e pertanto capaci di autosostenersi all’infinito. Ciò comprovava anche la “stabilità della materia”, secondo la quale tutti gli atomi (di idrogeno, di elio, di carbonio, ecc…) sono uguali tra loro, né si deteriorano nel tempo a meno di decadimento radioattivo. La fisica quantistica dava anche una spiegazione a quello che era fino allora un altro dei misteri irrisolti, e cioè quello della spettroscopia: perché ciascun elemento, se riscaldato, irradia solo determinati colori (righe colorate verticali su sfondo nero rilevate da uno spettroscopio) e non una miscela intermedia sfumata? Perché poter attribuire univocamente una sorta di codice a barre colorate per ciascuno degli elementi presenti in natura? Perché se si getta un po’ di sale sul fuoco vedremo apparire un colore giallo-arancione mentre se si getta del rame il colore sarà sempre verde-azzurro? Perché in una lampada al neon l’interrutore della luce aziona un voltaggio elettrico per gli elettroni all’interno del tubo di gas i quali, nella loro eccitazione, restituiscono energia sotto forma di luce giallo fluorescente? La risposta veniva fornita sempre dalla teoria di Bohr: quando gli elettroni non emettono né assorbono energia rimangono nelle loro orbite stazionarie, che sono quelle più vicine al nucleo a poter essere occupate (ovvero il numero quantico principale dell’elemento); ma qualora assorbono energia calorica con frequenza adeguata, saltano in un’orbita a distanza superiore dal nucleo (effettuando cioè quello che viene chiamato “salto quantico”), per poi ridiscendere nell’orbita iniziale e causare l’emissione di fotoni che sono responsabili del colore che vediamo nello spettro (il colore è deciso dall’entità del salto).
Nel 1916 Einstein intuisce che i fotoni, oltre che essere fasci di onde elettromagnetiche che viaggiano alla velocità della luce, mostravano anche proprietà tipiche particellari come l’impulso (in pratica capacità d’urto e di penetrazione), e questo pur essendo particelle prive di massa. Ciò spiega anche perché i raggi X, cioè fotoni ad alta frequenza (ovvero ad elevato impulso per l’ipotesi di Planck), hanno forza penetrante tale da superare una barriera materiale.
Nel 1924 il fisico e aristocratico francese Louis de Broglie estese il “dualismo onda-particella” agli elettroni e ad ogni particella elementare. Lo fece nella sua tesi di dottorato, proposta alla verifica di Einstein il quale commentò: “E’ stato sollevato un lembo del grande velo”. L’equazione che sintetizza il dualismo onda-particella prevede in sostanza che minore è la capacità d’urto e di penetrazione di una particella (misurata dalla massa per la velocità) maggiore è la lunghezza d’onda, e quindi più visibile il comportamento ondulatorio; al contrario, aumentando la capacità d’urto e di penetrazione dimunuirà la lunghezza d’onda, cosicchè gli aspetti ondulatori della particella verranno più difficilmente riscontrati. Così come avviene nel caso dell’elettrone, che Paul Dirac immaginò suggestivamente come “una pallina metallica molto, molto piccola”.
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