La responasabilità degli insegnanti nella comprensione della matematica

“Se gli allievi non capiscono, il torto è dell’insegnante che non sa spiegare. Nè vale addossare la responsabilità alle scuole inferiori. Dobbiamo prendere gli allievi così come sono, richiamare ciò che essi hanno dimenticato, o studiato sotto altro nome. Se l’insegnante tormenta i suoi alunni, e invece di cattivarsi il loro amore, eccita odio contro sè e la scienza che insegna, non solo il suo insegnamento sarà negativo, ma il dover convivere con tanti piccoli nemici sarà per lui un continuo tormento.”

Sono le parole di Giuseppe Peano (1858 -1932), eccentrico matematico piemontese. Si racconta che più di una volta, perduto dietro ai suoi calcoli, dimenticò di presentarsi alle sessioni di esame[. Il suo contributo più importante nella matematica furono gli assiomi che definivano l’insieme dei numeri naturali, i quali vennero ripresi anche dal filosofo matematico Bertrand Russell nei suoi Principia Mathematica. In sostanza gli assiomi di Peano affermano che l’insieme dei numeri, quello dei numeri che contiamo con le dita di una mano, e cioè 0, 1, 2, 3, 4, ecc…, può essere anche definito così: basta stabilire che vi sia un primo elemento e che, dopo ogni elemento, esiste sempre un elemento immediatamente successivo. Altrimenti detto, si può sempre affermare che un insieme ha le stesse caratteristiche di un insieme di numeri naturali purchè si è in grado di disporre in fila uno dietro l’altro i suoi elementi, anche se in numero infinito.

Peano fornì anche il primo esempio di una curva che riempie una superficie (la cosiddetta curva di Peano), che fu anche uno dei primi esempi di frattale di fine Ottocento. L’obiettivo di tale “paradosso” geometrico, che lasciò i matematici di allora molto sorpresi e perplessi, era di evidenziare che anche una curva, ente geometrico ad una sola dimensione (e che Euclide aveva definito fin dall’antichità come “lunghezza senza larghezza”), poteva avere la strana proprietà di riempire tutto un quadrato, figura a due dimensioni, che si estende geometricamente sia in lunghezza che in larghezza.

Eternità e tempo connubio possibile?

Quella del tempo è indubbiamente la questione metafisica più discussa e aperta, tanto affascinante quanto misteriosa. Ognuno di noi si sarà chiesto se lo scorrere del tempo ha avuto inizio in un preciso istante oppure, magari nei giorni in cui ci siamo sentiti più romantici o mistici, se può aver senso parlare di eternità. Sant’Agostino non aveva dubbi a proposito, lasciandoci per iscritto nel De civitate Dei che la creazione dell’universo avvenne attorno al 5000 avanti Cristo. Alla domanda “che cosa facesse Dio prima di creare l’universo” Agostino rispose che Dio creò anche il tempo, mentre l’ironia di Stephen Hawking avrebbe suggerito in epoca più recente che stava preparando l’inferno alle persone che fanno domande del genere.

La maggior parte dei filosofi greci credeva invece nell’eternità, e quindi che il mondo umano esistesse da sempre e continuerà sempre ad esistere. In particolare Platone, seguendo le orme di Parmenide, prese in considerazione l’idea di Forme (o Idee) atemporali ed eterne che esistono al di fuori dell’esperienza ordinaria dei sensi. Nella matematica, per esempio, il fatto che ogni numero intero maggiore di due può essere ottenuto come media aritmetica di due numeri primi, oppure che addizionando numeri dispari consecutivi otteniamo la serie dei numeri quadrati, sono realtà inconfutabili a prescindere dalla nostra esistenza e dal nostro volere. Duemila anni più tardi Kant diceva che l’ordine temporale scandito da infinite sequenze “prima-dopo” non è un aspetto del mondo da noi percepito ma semplicemente una categoria intelligibile che precede qualsiasi esperienza umana. Un secolo e mezzo più tardi ci si accorge invece che il tempo è relativo al moto, e che spostandosi a velocità comparabili a quelle della luce il tempo è più breve rispetto a quello di un soggetto che rimane fermo. Nasce il paradosso dei gemelli: il fratello che viaggia nello spazio ritornerà sulla Terra più giovane rispetto all’altro fratello. “La separazione tra passato, presente e futuro – amava dire Einstein – è solo un’illusione per quanto tenace”. La teoria della relatività generale avvalorò anche l’ipotesi del Big Bang, ovvero dell’inizio dell’universo avvenuto circa 14 miliardi di anni fa, e della cui esplosione iniziale vediamo ancor oggi i raggi a microonde del “lampo di luce primordiale” che si espandono uniformemente in tutte le direzioni dello spazio.

Una delle tematiche più dibattute nella fisica moderna, e non solo nella metafisica, è quella che gli addetti ai lavori chiamano freccia del tempo. Il tempo aumenta irreversibilmente, esiste cioè sempre un prima e un dopo, un passato e un futuro, oppure è concepibile per i fenomeni fisici un tempo simmetrico, che può assumere valori positivi e negativi? E’ indubbio che la nostra coscienza agisce secondo il principio “causa-effetto”, che ci dà l’impressione di un tempo che procede sempre in una direzione, da un passato-causa ben definito a un futuro-effetto incerto. La fisica degli ultimi secoli ci narra però una storia diversa, fatta di leggi fondamentali (quelle per esempio di Newton, Maxwell, Einstein, Dirac, Schrodinger) simmetriche rispetto al tempo, dove i fenomeni rimangono inalterati se sostituiamo la variabile temporale t con –t. L’unico settore della fisica in cui il tempo sembra prediligere una sola direzione è quello della termodinamica. Agli inizi dell’Ottocento Carnot e Clausius scoprivano una legge tanto semplice quanto importante, ossia che il calore passa dal caldo al freddo e mai dal freddo al caldo. Boltzmann aggiunse che tale fenomeno era dovuto ad una legge puramente probabilistico-statistica connessa col moto delle particelle. Il calore non era qualcosa di materiale ma veniva determinato indirettamente dall’agitazione microscopica delle molecole: in un tè caldo le molecole si agitano molto, in un tè freddo si agitano di meno, mentre in un tè ghiacciato le molecole sono praticamente ferme. Se una parte delle molecole è ferma, molto probabilmente verrà trascinata dal moto frenetico delle particelle di corpi più caldi, cosicchè il moto comincia ad espandersi diffusamente a tutte le molecole che si urtano tra loro. E’ solo per questo che le cose fredde si scaldano a contatto con le cose calde (e non viceversa). La sorprendente e rivoluzionaria conclusione di Boltzmann poteva estendersi alla coscienza, in quanto il cervello si scalda quando pensiamo, e quindi anche il principio causa-effetto è da ritenersi come conseguenza di una legge statistica.

Non c’è spazio allora per irriducibili idealisti e sognatori che vorrebbero credere nell’eternità? Se abbandoniamo le rigorose leggi della fisica e ci avviciniamo al mondo della psicologia, gli archetipi di Jung ci riconducono alle Idee platoniche e ad un contesto eternamente immutabile fatto di simboli, sogni, visioni, fiabe e miti. Il “c’era una volta” di Cappuccetto Rosso e Cenerentola ci ricorda non a caso che l’epoca del racconto è un “passato indistinto”, che non ha bisogno di un preciso riferimento temporale. Allo stesso modo la ripetizione negli anni di un rito (Santa Messa, festività natalizia o pasquale, matrimonio, compleanno, funerale), così come la lettura di un bel libro o l’ammirazione di una qualsiasi opera artistica, ci dà la sensazione di vivere un momento sconnesso dal quotidiano scorrere del tempo. Anche l’inconscio collettivo junghiano, che rende plausibile l’esistenza autonoma e atemporale di una “storia delle memorie” generata dall’esperienza psichica di molte generazioni passate, non può che rievocare il binomio memoria-eternità di Jorge Luis Borges. Nel suo saggio dal titolo paradossale e provocatorio, Storia dell’Eternità, la passione e il ricordo tendono all’atemporalità. “Noi racchiudiamo – dice lo scrittore argentino – le felicità di un passato in una sola immagine; i tramonti che ammiro ogni sera saranno il ricordo di un unico tramonto…senza somiglianze né ripetizioni. Il tempo, se possiamo intuire questa identità, è un’illusione (Einstein docet, nda): l’indistinzione e l’inseparabilità di un momento del suo apparente ieri e di un altro del suo apparente oggi bastano a disintegrarlo.”

Nell’antichità si usava personificare l’eternità del tempo con il dio Aion, le cui sembianze leonine erano avvolte da un serpente e dai dodici segni zodiacali. Con ciò si voleva dare forma e concretezza al tempo eterno, eonico, quell’unico istante senza possibilità di ripetizioni e di cicli, in cui solo agli déi era permesso di creare. Eraclito diceva che “Aion è un bambino che gioca e che sposta le pedine, un bambino che appartiene alla sovranità”. E forse Einstein, quando in un appassionato diverbio con Bohr sulle stranezze della fisica quantistica, affermò che “Dio non gioca a dadi con l’universo”, non si allontanava tanto dal vero. Il gioco è principio creativo per eccellenza, i bambini non si ricordano di avere fame né sentono le esortazioni delle madri quando sono totalmente immersi nei loro giochi. E’ uno stato di coscienza non contrassegnato dallo sforzo, un flusso naturale o un talento del nostro agire, uno stato di concentrazione così profondo da far perdere il senso del tempo.

Il principio creativo fu però fatale a Ludwig Boltzmann, caratterialmente instabile e nato un martedì di carnevale. La sua vita giunse a fine corso un triste 5 settembre del 1906, quando la sua genialità incompresa causò l’instabilità mentale che lo spinse ad impiccarsi a Duino, nei pressi di Trieste. Solo l’anno prima Einstein scriveva l’articolo sul moto browniano delle particelle, che da lì a poco avrebbe reso giustizia alle teorie di Boltzmann che tanto avevano osato contro il comune pensare, ma destino volle che il tempo irreversibile non maturò a sufficienza e decise in quella circostanza di tradire il suo stesso creatore.