Dio è un matematico?

Si è discusso molto sul fatto che le leggi della scienza sembrano “intelligentemente” predisposte per rendere possibile la loro scoperta da parte di un essere umano altrettanto intelligente. Si è anche detto che l’essere umano può considerarsi come un riflesso vivente di tali leggi le quali, per la loro magica e misteriosa coordinazione, assumono la forma di un “sapere divino”.

Il fisico italiano Galileo Galilei, che verso la fine del Cinquecento aprì le porte alla scienza moderna, affermava che gli scienziati avrebbero dovuto ascoltare la natura stessa, e che le chiavi per decifrare il linguaggio dell’universo erano le relazioni matematiche e i modelli geometrici. Molti anni prima fu Pitagora ad enfatizzare il legame tra matematica e cosmo-natura, dicendo che “tutto è numero”. Nel suo Discorso riguardante gli Déi Pitagora definisce il “Numero come l’estensione e la produzione in alto delle ragioni seminali che sono nella Monade, o in una moltitudine di Monadi” (che nella dottrina di sant’Agostino verranno battezzati archetipi). Perciò i numeri non erano semplicemente uno strumento per denotare quantità e grandezze, ma si proponevano come agenti formativi e attivi della natura. Ogni cosa nell’universo, dagli oggetti materiali come la Terra ai concetti astratti come quello della giustizia, era numero da cima a fondo. Viene dunque da chiedersi se Dio fosse un matematico, o invece se la matematica fu scoperta o inventata dagli uomini. I pitagorici non avevano alcun dubbio, ritenedo la matematica reale, immutabile, onnipresente e più sublime di qualsiasi cosa potesse mai emergere dalla debole mente dell’uomo. I pitagorici radicavano letteralmete l’universo nella matematica. Per loro Dio non era un matematico, ma era la matematica stessa ad essere Dio.

Un secolo e mezzo dopo fu Platone a riunire per la prima volta campi che andavano dalla matematica, la scienza, il linguaggio, la religione, l’etica e l’arte, considerandoli un tutt’uno. Egli definì quest’unità come l’unica filosofia in grado di darci l’accesso a un mondo di verità, che si trova ben oltre ciò che siamo in grado di percepire con i nostri sensi o anche solo dedurre con il semplice buon senso. Nella famosa allegoria della caverna, ad esempio, i prigionieri vedono solo una proiezione della realtà ma non la realtà stessa. La proiezione è la realtà sviata dalle apparenze, la realtà percepita dai sensi e dalla comune esperienza, ma che può essere trascesa con un processo attivo e interiore di apprendimento.

La visione di Platone di una realtà al di là delle apparenze unisce due correnti di pensiero, quella pitagorica descritta in precedenza e quella di Parmenide, dove ciò che può essere pensato o di cui si può parlare esiste in tutti i tempi e non può mai cambiare. In sostanza, il platonismo abbraccia l’idea che esistano realtà astratte, eterne ed immutabili, assimilabili a concetti e astrazioni matematiche, completamente indipendenti dal mondo effimero percepito dai sensi. Secondo Platone, l’esistenza reale di queste entità matematiche è un fatto oggettivo quanto l’esistenza dell’universo stesso. Non solo esistono da sempre i numeri naturali, i cerchi e i quadrati, ma anche i numeri immaginari, le funzioni, i frattali, le geometrie euclidee e non euclidee. In breve, tutti i concetti matematici o le asserzioni oggettivamente vere, che siano state anche mai formulate, immaginate o scoperte, sono entità assolute e universali che non è possibile creare né distruggere. Esse esistono da sempre, indipendentemente dalla conoscenza che noi ne abbiamo. Inutile dire che tali oggetti non sono fisici, ma vivono in un mondo autonomo di entità eterne.

Il platonisomo considera i matematici e gli scienziati, prima ancora che inventori dei loro teoremi e delle loro leggi, come esploratori di terre sconosciute: essi possono solo scoprire verità matematiche, non inventarle. Così come l’America esisteva prima che Colombo la scoprisse, i concetti matematici esistevano da sempre nel mondo platonico, prima ancora che i Babilonesi o i Cinesi inaugurassero lo studio della matematica. Le sole cose che hanno un’esistenza vera e completa sono dunque queste forme e idee matematiche astratte, ed è solo nella matematica, come sosteneva lo stesso Platone, che possiamo raggiungere una conoscenza assolutamente certa e oggettiva. Di conseguenza, la matematica non può che essere strettamente associata al divino.

Astrologia e cartomanzia tabù storici per il Vaticano

Nell’Angelus del 13 agosto 2017 Papa Francesco ha ammonito i suoi fedeli che “quando non ci si aggrappa alla parola del Signore ma si consultano oroscopi e cartomanti, si comincia ad andare a fondo”, parafrasando l’episodio evangelico di San Pietro che tenta di raggiungere Gesù camminando sulle acque del Lago di Galilea, ma poi dubita e affonda.

http://www.repubblica.it/vaticano/2017/08/13/news/il_papa_quando_ci_si_aggrappa_a_oroscopi_e_cartomanti_si_va_a_fondo_-172956019/

Forse è il caso di ricordare al nostro pur simpatico pontefice che l’arte divinatoria non nasce come curiosa e ingenua superstizione, ma si è resa necessaria per prevedere le ostilità della natura onde limitare il danno dei raccolti. Non a caso il riferimento fondamentale di tutta l’arte divinatoria, l’I-Ching cinese, il famoso “Libro dei Mutamenti”in cui si descrivevano tutti i possibili stati di mutamento del cosmo, della natura e della vita umana, era concepito come almanacco dell’agricoltura, della pesca e della caccia. E’ anche opportuno ricordare a Bergoglio che nella cultura Maya erano i sacerdoti a possedere tutte le conoscenze scientifiche, astronomiche, astrologiche e religiose (considerate parti di un’unica disciplina), di cui si servivano per regolare la vita della comunità e prevedere il futuro. Anche presso gli antichi Egizi, Sumeri e Greci spettava al saggio sacerdote fare l’oroscopo (da hora-ora, skopein-guardare), ovvero “guardare la posizione degli astri nell’ora di un particolare evento” (come la nascita di un figlio della famiglia regnante, la possibilità di un intervento bellico, la proclamazione di uno Stato, la celebrazione di nozze regali,…), per poi sancire e benedire le possibilità future che da esso ne sarebbero seguite.

E’ altresì opportuno far osservare al sommo pontefice che il secondo arcano maggiore dei tarocchi, la Papessa, è il simbolo di una madre spirituale che porta in sé la saggezza ancestrale dei cicli della natura, che detiene una conoscenza che si eredita dal vissuto e dalle generazioni passate, fatta di misteri occulti, di sensazioni “di pancia” e di percezioni corporee che non sempre vengono apprese da testi scritti. Non è un caso che in quasi tutte le versioni dei tarocchi la Papessa tiene un libro sulle ginocchia ma non ha bisogno di guardarlo, e così il velo che le cinge il capo vuol significare che la vera conoscenza è arcana, simbolica, velata, che non si lascia svelare facilmente alla razionalità umana. Una versione negativa della Papessa è stata assunta negli anni dalle tante streghe bruciate al rogo dalla Chiesa, in quanto detentrici di un sapere pericoloso come quello della pharmakeia, la scienza dei farmaci che guarisce secondo riti magici e sacrificali.

Il velo della Papessa dovrebbe infine ricordare alla massima autorità ecclesiastica che le scienze occulte (tra cui l’astrologia e la cartomanzia), se comprese a fondo, possono svelarci l’arcano dell’esistenza umana. Denigrarle o, peggio ancora, demonizzarle ed esorcizzarle, significa continuare in quell’obsoleta strategia di oscuramento della verità, che ha raggiunto il suo apice nel rifiuto della teoria eliocentrica durato ben 360 anni, periodo che va dal processo di Galileo Galilei (costretto all’abiura delle sue concezioni astronomiche per evitare il carcere) al riconoscimento da parte di papa Giovanni Paolo II degli “errori commessi” dalla Chiesa.

Ma a preoccupare di più, a mio avviso, è la chiusura dell’Angelus. “La Chiesa – spiega Bergoglio – è una barca che, lungo l’attraversata, deve scontrare anche venti contrari e tempeste, che minacciano di travolgerla. Ciò che la salva non sono il coraggio e le qualità dei suoi uomini: la garanzia contro il naufragio è la fede in Cristo e nella sua parola. Su questa barca siamo al sicuro, nonostante le nostre miserie e debolezze”.

Annullare le singole virtù e rendere l’uomo incapace di autoredimersi ha permesso nei secoli alla Chiesa di proporsi come unica via di salvezza, in grado di donarci quella grazia che ci assolve dai peccati in cambio della fede. Ma virtù e peccati andrebbero considerati come normali fasi di un processo psichico individuale, che ciascun essere umano, col coraggio delle proprie responsabilità, è chiamato ad affrontare se vuole differenziarsi come identità unica e irripetibile pur di non naufragare nelle acque tranquille di un conformismo, che dà sicurezza a “miseri e deboli mortali” (usando le parole di Bergoglio) ma non rende certamente liberi.

Come dimenticare il coraggio di tanti alchimisti, condannati con crudeltà dalla Chiesa nel Medioevo, che nella solitudine dei loro laboratori improvvisati, cercavano di redimere se stessi liberando la prima materia dalla corruzione per trasformarla in pietra filosofale. Come dimenticare anche il coraggio di Giordano Bruno, che qualche anno prima di Galilei ha associato alchimia, eliocentrismo e arti magiche per giungere ad una comprensione olisitica e panteistica dei fenomeni naturali e universali. Ma fu un coraggio troppo rivoluzionario per quei tempi, unico inseparabile compagno in quella cupa e silenziosa alba del 17 febbraio 1600 in piazza Campo dei Fiori a Roma, dove lo attendeva inesorabile la fine tragica del rogo, così come deciso da madre Chiesa per punire quei peccatori così audaci che osano uscire dal gregge obbediente dei fedeli.

 

 

E se la Luna fosse innamorata del Sole?

Il volto della Luna nel cielo notturno, che ha ispirato poeti, scienziati e marinai nella storia millenaria dell’umanità, si è sempre fatto osservare, quasi per burla, dal medesimo lato. Per i più romantici potrà sembrare una Luna innamorata che non può distogliere lo sguardo dal Sole, come per esempio leggiamo nei versi di Parmenide che, più di duemila e cinquecento anni fa, ci racconta dell’amore di Selene per il raggiante Elio. In epoca moderna i Pink Floyd danno invece una veste musicale all’irresistibile flirt fra i due luminari, lasciandoci in eredità lo splendido album The Dark Side of the Moon.

Ma perché vediamo sempre la medesima faccia della Luna? La motivazione astrofisica sta semplicemente nel fatto che il moto di rotazione lunare attorno al proprio asse (ovvero il tempo che il luminare notturno impiega per fare un giro completo su se stesso) coincide esattamente con il suo moto di rivoluzione intorno alla Terra (che sappiamo essere di quasi 28 giorni). Per visualizzarlo meglio prendete due arance, infilate dentro ad ognuna uno stuzzicadente e fatele ruotare come segue: la prima arancia fa un giro su se stessa rimanendo centrata in una posizione fissa, la seconda arancia gira invece percorrendo nel frattempo un cerchio avente come centro la prima arancia. Se fate girare le due arance alla stessa velocità (avendo cura cioè di mantenere i due stuzzicadenti allineati e uno di fronte all’altro), noterete che dallo stuzzicadente dell’arancia al centro sarà impossibile vedere la facciata disposta dietro lo stuzzicadente dell’altra arancia.

La stessa cosa avviene per i satelliti degli altri pianeti del sistema solare, e ciò è dovuto alla cosiddetta “attrazione di marea” tra satellite e pianeta, che esercita nel tempo (milioni di anni) un effetto frenante nei movimenti orbitali e una conseguente sincronizzazione dei moti di rotazione con i moti di rivoluzione. Tale fenomeno è noto in fisica anche come “agganciamento di fase”, lo stesso per esempio che dopo qualche minuto fa sincronizzare gli orologi a pendolo di una stanza o i metronomi su un tavolo (fu il fisico Christian Huyghens a scoprirlo a metà del Seicento).

Un fenomeno analogo si riscontra nell’intera elettronica rendendo possibile, per esempio, a un apparecchio radio di rimanere bloccato su un segnale anche quando ci sono piccole fluttuazioni nella frequenza. L’agganciamento di fase spiega tra l’altro la capacità di gruppi di oscillatori, fra cui oscillatori biologici come cellule cardiache e cellule nervose, di lavorare in modo sincronizzato. Un esempio spettacolare in natura è una specie di lucciola del sudest asiatico, dove nel periodo dell’accoppiamento migliaia di esemplari si riuniscono sugli alberi lampeggiando con una fantastica armonia spettrale. Del resto, non si tratta della stessa risonanza che ci fa pensare come le persone a noi simili o che crea la magia amorosa capace di sincronizzare i respiri e i cuori degli innamorati?

Il diavolo dentro di noi

Nei tarocchi il Diavolo è l’arcano che più di ogni altro rappresenta il “rimosso psichico” freudiano, con il quale si identifica nella psicoanalisi l’insieme dei contenuti rifiutati dalla coscienza. Si tratta degli istinti primitivi (animaleschi e grossolani), delle pulsioni aggressive (grezze e incontrollate), delle funzioni psichiche inferiori (irrazionali e anticonvenzionali), in cui l’Io cosciente si sente goffo e inadatto agli occhi della società. Non sarà peraltro un caso che la parola “diavolo” derivi da “dia-ballein”, che significa appunto “separare” (cioè rimuovere) quello da cui l’aspetto cosciente prende le distanze. In termini psicologici è dunque l’avversario principale della coscienza, il “satanico” avversario dell’Io, quello che Jung ha definito come “ombra” (la parola ebraica satán significa avversario in guerra).

L’Arcano del Diavolo ricorda molto da vicino il dio Pan mitologico, potente e selvaggio, raffigurato con busto umano, volto barbuto, gambe e corna caprine. Pan era un dio terrestre, amante della natura e dei piaceri della carne; il suo habitat erano le oscure caverne e i boschi, dove inseguiva le ninfe per soddisfare i suoi istinti sessuali. Possiamo perciò associare il dio Pan e l’Arcano del Diavolo alla “materia”: piaceri immediati del corpo, sensorialità, fisicità, schiavitù delle ambizioni materiali, passioni volgari, lussuria, seduzione dei sensi, vizi, sessualità indiscriminata e priva di identità (il Diavolo, in molte versioni dei tarocchi, ha mammelle e pene contemporaneamente), sessualità compulsiva e mastubatoria (finalizzata al piacere e non creativa), forme di perversione e di stupro (fisico e morale).

Nel suo memorabile Saggio su Pan James Hillman dice: “Nel Pan fallico che insegue e nella ninfa in fuga nel panico sono contenuti i due fuochi dell’ambivalenza dell’istinto. Quando Pan insegue le ninfe, lo stupro ha come obiettivo una forma di coscienza indefinita ancora ubicata nella natura ma non ancora incarnata personalmente (essendo la ninfa ancora attaccata ad alberi, fonti, caverne, esili fantasmi, foschia, e quindi natura casta, intatta e vergine). Il corpo di Pan è caprino, e ciò impone alla realtà sessuale una struttura di coscienza che non ha una vita fisica personale, ma è tutta là fuori nella natura impersonale. Pan lo stupratore verrà evocato da quegli aspetti verginali della coscienza che non sono fisicamente reali, privi di contatto e distanti dai sensi. Sono i sentimenti e i pensieri che rimangono nebulosi e sfuggenti, freddi, remoti e riflessivi che richiamano su di sé lo stupro. Lo stupratore che insegue la vergine è un modo di esprimere il comportamento in cerca della fantasia che acquieti la sua coazione. La repulsione della vergine è un altro modo invece di esprimere la paura che la fantasia ha del comportamento fisico. Ma la violazione della vergine è inevitabile in tutti i casi in cui ci siano confini eccessivamente rigidi tra fantasmi troppo remoti del corpo e fantasmi totalmente immersi nel corpo. E’ allora che la metafora concreta della forzata giustapposizione genitale viene costellata, ri-unendo fantasia e comportamento: il “concreto” ci viene addosso per mettere a disagio una coscienza che è troppo eterea ed effimera. La via di Pan può essere allora il lasciati guidare dalla natura, dove è il nostro corpo in definitiva a dire sì o no alle esperienze”.

Hillman fa notare anche che la penetrazione trasgressiva di Pan non è dissimile da quella dei contenuti inconsci, che penetrano a forza nella coscienza, destabilizzando lo status quo ma alimentando le autentiche trasformazioni della psiche. Innumerevoli volte passaggi cruciali per l’evoluzione dell’individuo si concretizzano grazie all’intervento dell’ombra, che penetra e irrompe nella vita concreta in forma di una dimenticanza, di un errore o di un sms dell’amante (dove, come si usa dire, “il diavolo ci mette lo zampino”). L’ombra è diabolica nella sua risolutezza e demoniaca nella sua potenza. Ma, grazie a queste caratteristiche, fa quelle cose che l’Io non ha il coraggio di fare o prende quelle decisioni che l’Io non ha la forza di prendere. L’ombra-Diavolo, in fondo, è la componente della psiche laddove non arriva l’Io, quella che interviene a fare il “lavoro sporco della coscienza”, ma alla fine, come disse Mephisto a Faust, “è una forza che vuole sempre il male e sempre opera per il bene”.