Musica

“Ti senti più matematico o musicista?” è la domanda che mi son sentito rivolgere musicapiù spesso nella mia vita. Sinceramente ancora oggi faccio fatica a rispondere, e a volte mi chiedo se è proprio necessario farlo. Già, matematica o musica, un po’ come il dualismo onda-particella della meccanica quantistica. Nel Novecento i fisici hanno scoperto, con grande sorpresa, che è la tipologia dell’esperimento a decidere il comportamento ondulatorio o particellare dei fenomeni, o per essere più precisi, a risolvere l’ambigua natura del mondo microscopico interagendo direttamente con le entità quantistiche. Il tutto ricorda un po’ il dramma pirandelliano “Come tu mi vuoi”, storia realmente accaduta nella Berlino degli anni Venti, che narra di una femme fatale senza nome, contemporaneamente amante di un padre di famiglia e la figlia di lui. L’ambiguità è stato del resto il leit motiv della letteratura pirandelliana, basti pensare a “Il fu Mattia Pascal”, “Uno, nessuno, centomila” o “Sei personaggi in cerca d’autore”. E forse non sarà nemmeno un caso che la similarità della mia carta astrale con quella di Pirandello (entrambi del Cancro con forte componente Gemelli) possa spiegare in parte l’ambiguità musica-matematica che continua a caratterizzare la mia vita.

Matematica e musica, un nesso che ci riporta alle passeggiate di Pitagora nella splendida Samo, quando la curiosità dei suoni diversi che uscivano dalla fucina di un fabbro gli fece scoprire una teoria che legava le frequenze del suono alle lunghezze di una corda vibrante fissata a due estremità: DO per una certa lunghezza, DO dell’ottava superiore per una lunghezza pari a metà della precedente, SOL per una lunghezza uguale a due terzi, FA per una lunghezza uguale a tre quarti, e così via. Una legge molto semplice, durata più di duemila anni, che creava un ponte significativo tra astrazione numerica e realtà sonora. Ci volle l’audacia di Vincenzo Galilei, padre di un figlio ancor più audace, per modificare quell’antica legge con la teoria del temperamento equabile, ossia la suddivisione dell’ottava in dodici semitoni che ritroviamo anche nell’alternanza dei tasti bianchi e neri di un pianoforte.

Pochi anni più tardi fu Keplero ad usare la scala pitagorica per immaginare “un perenne concerto dei moti celesti”, elogiando peraltro la componente mentale piuttosto che corporea della musica. Cent’anni dopo, il matematico Leibniz dirà in una lettera al collega Goldbach: “Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi” (la musica è un esercizio occulto di aritmetica, in cui l’anima non sa di contare). L’intuizione di Leibniz anticipa la teoria sulla “coincidenza degli armonici”, secondo la quale il cervello umano non farebbe altro che contare quando deve decidere sulla gradevolezza di un accordo musicale. Avviene infatti che quanti più suoni armonici (quelli cioè con frequenze multiple tra loro) vi sono in comune tra due note tanto più esse sono in risonanza, risultando perciò più piacevoli per l’orecchio umano se suonate contemporaneamente.

Nell’Ottocento Hermann von Helmholtz fece il primo fondamentale passo nella direzione di conciliare estetica musicale e psiche. Egli imputò ai battimenti la causa del fastidio generato da un insieme di suoni dissonanti; viceversa, era l’assenza di battimenti a generare l’effetto di consonanza tra due note e a rendere piacevole l’ascolto. In sostanza, quando noi udiamo un battimento, ossia il suono di due note che differiscono di poco in frequenza, questo non viene elaborato da fibre nervose e reti neurali distinte, circostanza che introduce nel cervello condizioni di ambiguità. Recenti esperimenti effettuati da neuroscienziati sull’analisi del sistema nervoso cerebrale confermano che i treni di impulsi neurali generati da insiemi di suoni consonanti sono più semplici da elaborare, in quanto è più immediato e meno ambiguo contare quanti sono i loro armonici in comune.

Anche il funzionamento della psiche umana si basa fondamentalmente su un processo di risoluzione dell’ambiguità (presente nell’inconscio sotto forma di simboli, sogni o visioni) per mezzo di numeri o figure geometriche, che si prestano alla coscienza come strumenti necessari per mettere ordine e prendere consapevolezza dell’esperienza psichica. Non a caso Jung ha più volte insistito sul fatto che “il numero è l’archetipo dell’ordine fattosi cosciente”. E se l’atto di abbandonarci alla musica, suonandola o ascoltandola, è uno dei modi più frequenti di accedere all’inconscio attraverso le emozioni che proviamo, i numeri matematici risulteranno necessari per stabilire la consonanza armonica, un po’ come quegli operatori che allestiscono il palcoscenico dietro le quinte o manipolano i cursori dei mixer audio dentro gabbie di vetro, senza i quali però nessun spettacolo musicale potrebbe essere reso piacevole ai nostri sensi.

Qui si trova un approfondimento sulla carriera musicale di Roberto Daris.

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