Onorata in passato da uomini come Paracelso, Giordano Bruno, Keplero e Galileo, considerata fin dagli albori delle civiltà come la regina delle scienze, divenuta poi nel Rinascimento la folle madre dell’astronomia, per essere infine accantonata dal mondo scientifico come una malefica strega o, peggio ancora, come una vecchia prostituta, che valore possiamo dare oggi all’astrologia?
Di recente è stata la psicologia, l’unica tra le scienze moderne, a trovare maggior affinità e condivisione con l’astrologia. Psicologi della fama di Jung e Allendy sono stati sorpresi nell’osservare un collegamento diretto tra i complessi psicoanalitici e la carta astrale dei pazienti, constatando l’esistenza di un preciso nesso tra l’astrologia e la psicologia. Assecondando un vecchio adagio latino, astra inclinant sed non necessitant, il quale ci ricorda che le stelle possono predisporre ma non determinare il destino degli uomini con influssi astronomici a distanza, sembra più logico e sensato avere dell’astrologia una concezione simbolica, immaginandola come matrice qualitativa dei variegati comportamenti umani.
Fu il filosofo Plotino, erede di Platone nonché grande astrologo della Grecia antica, a considerare pianeti, segni zodiacali e configurazioni astrali non come causa di eventi ma esclusivamente come “simboli che li indicano”. Egli sosteneva che l’azione di una parte su un’altra non dipende dalla vicinanza delle parti stesse ma bensì dalla loro similitudine; ad esempio, Marte decide sui comportamenti aggressivi e rabbiosi di un individuo non per un influsso astronomico diretto, ma perché tale astro è simbolo di quei comportamenti. E’ pertanto unicamente in virtù dell’azione simpatica tra due entità simili, all’interno di un cosmo unitario e indivisibile, che tra l’astro e l’uomo si stabilisce una simultaneità globale di somiglianza e non una concatenazione di cause ed effetti.
Gli psicologi sono concordi nell’affermare che l’elemento fondamentale della vita psichica è una forma del tutto spontanea e primordiale di attività di derivazione istintuale, ossia la tendenza. Si tratta in sostanza di un asse comune che organizza allo stato potenziale l’azione psichica e fisica di ogni individuo, e con essa una direzione di massima del suo comportamento. Tutti noi tendiamo verso certi modi di essere, e ciò avviene grazie al principio di plasticità delle tendenze. Per tale motivo, i dodici segni zodiacali possono essere interpretati come famiglie di tendenze – composte da racconti mitologici, psicologie comportamentali, modelli relazionali, tipi di mentalità o di sensibilità, costituzioni morfologiche, funzioni fisiologiche e patologie del corpo umano – che nel loro complesso inclinano alle diverse attitudini umane. Nel caso del Sagittario, per esempio, all’attitudine “espansione” corrisponderà un insieme di tendenze psicofisiche come l’istinto di grandezza, l’altezzosità, la boria, l’ipertrofia narcisistica dell’Io, il bisogno di appartenenze ampie, l’attitudine ad uno stato di benessere e di ricchezza (morale o materiale), l’umore ottimista, le forme corporee dilatate (allungate, arrotondate o elastiche), l’energia cinetica e gli organi che la producono (fegato, muscoli e vasi sanguigni), i problemi di sovrappeso e le cosiddette patologie del benessere (diabete, aterosclerosi, gotta).
Più in generale, un nostro modo peculiare di essere è descritto nell’oroscopo di nascita, che può essere immaginato come la combinazione di due o più segni astrologici, i quali determineranno, sempre con modalità tendenziale, sia il carattere che il destino di ciascun individuo. Fu il poeta romantico tedesco Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg, noto con lo pseudonimo di Novalis, a dire che “il carattere è destino”. Anche Schopenhauer, dal canto suo, si è posto la seguente domanda: “è possibile una completa sproporzione tra il carattere e il destino di un uomo?” Possiamo credere, allora, che gli eventi della vita siano attratti dal carattere di ognuno di noi, come se invocati da qualche entità ultraterrena che si preoccupa segretamente di un singolo destino? La cristianità se la raffigurò come un angelo custode, ma ancor prima fu il genius degli Etruschi, il daimon dei Greci e lo spiritus familiaris dei dotti e dei maghi. Eraclito affermava che “l’indole è per l’uomo il suo daimon”. Lo stesso Platone, alla fine della Repubblica, immaginava che nell’aldilà fossero le anime di ogni mortale a sorteggiare il proprio destino, per poi dimenticarsene dopo aver bevuto l’acqua del fiume Lete. Sarà anche qui un daimon a ridestare la memoria dell’anima dopo la sua discesa sulla terra, risvegliando quel destino assopito dall’antica dimenticanza.
Dove è possibile ritrovare ciò che la nostra anima non ricorda più? Un modo è quello di risalire alla memoria collettiva dell’umanità, luogo remoto in cui Jung ha scoperto gli archetipi dell’inconscio collettivo e che Hillman ha immaginato come un’antica “sala delle memorie”, metaforica mostra permanente di effigi mitologiche. Gli archetipi, da intendersi in senso strettamente etimologico come “primi modelli”, nella mitologia diventano modi esemplari di comportamento attuati per la prima volta dagli dèi, che gli esseri umani hanno cercato di imitare nel lungo corso della storia. E’ solo imitando gli dèi, invero, che al comune mortale è data la possibilità, come in un sogno o una visione, di eliminare la distanza che separa il tempo profano della quotidianità dalla sacralità del tempo mitico. E’ nella rilettura dei miti, dunque, che sentiamo di appartenere ad una “famiglia mitologica” di tendenze comportamentali, eternamente presenti nella storia dell’umanità. E’ per questo motivo che le azioni di Zeus o Dioniso, di Era o Persefone, riescono ad attrarci misteriosamente in zone confortevoli di accoglienza. La psicologa junghiana Jean Sinoda Bolen diceva che “quando vi accade di interpretare il mito di un dio o di coglierne il significato, razionalmente o intuitivamente, come qualcosa che riguarda la vostra vita, questo può avere la stessa forza d’urto di un sogno, che fa luce su una situazione e sul vostro carattere”. Sembrerà così di entrare in un nobile castello e di attraversare dodici stanze impolverate – se pensiamo all’associazione tra la mitologia e i segni zodiacali – dove qua e là ritroviamo noi stessi, le nostre abitudini, le nostre virtù, ma anche gli scheletri nell’armadio e la messa a nudo di vizi e pudori, che vorremmo tener nascosti e che difficilmente confidiamo in pubblico.
Ciò significa che ogni carattere individuale va immaginato come un gruppetto prescelto di “dèi interiori” – o, equivalentemente, di archetipi zodiacali corrispondenti – che al pari di un daimon personale, vegliano sul nostro destino e ne tessono segretamente la trama. Può succedere che alcuni dèi trovino una certa difficoltà ad esprimersi, poiché ostacolati dal lato cosciente della personalità o da retaggi familiari, stereotipi sociali e condizionamenti ambientali di vario tipo. Ma il “principio di totalità psichica” ci impone di riconoscere e rispettare tutti gli dèi che ospitiamo, e con essi il loro bisogno di recitare la parte di copione previsto dal destino che ci attende. Non a caso, sin dall’antichità, gli dèi sono stati sempre riconosciuti dalla collettività, con riti, tributi e festività in loro onore, poiché solo così si evitavano le punizioni che sarebbero derivate per l’offesa seguita alla dimenticanza. Non riconoscere oggi i nostri dèi vuol dire proiettarli all’esterno, imputando per esempio ad altri le colpe e le ombre delle nostre azioni, oppure, ancor peggio, farli diventare demoni interiori, possessioni, complessi psicologici, malattie del corpo o dissociazioni schizofreniche.
Sempre nell’antichità, sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, considerato l’oracolo per antonomasia, troneggiava la scritta gnothi sauton (conosci te stesso). Ciò esorta a riconoscere e rimembrare tutte le divinità che ci sono simili e familiari. Ecco il dovere di tutta una vita, il dharma che nei testi vedici equivale a ricordare lo scopo della reincarnazione. Per farlo bisogna ritornare all’illud tempore dei miti, al c’era una volta delle fiabe. Lì troveremo il paradiso perduto e atemporale degli archetipi, dove tutto accadde per la prima volta e iniziarono le infinite imitazioni degli esseri umani. Per capire quali di queste ci sono più affini, si può ricordare un altro inizio, quello della nostra nascita nell’universo, momento in cui la firma divina ha sottoscritto la nostra carta astrale.
Il compito della moderna astrologia, in definitiva, non è quello di prevedere semplicemente il destino ma di aiutarci a riconoscere, assieme agli dèi che albergano nell’anima, gli archetipi zodiacali che contraddistinguono il carattere velatamente inscritto in ogni oroscopo natale. Questo ci permette anche di immaginare la vita come l’ingrandimento della nascita, e constatare che tutto quello che si verificherà nel destino è stato già in qualche modo anticipato nell’evento in cui emanammo il primo respiro. Più poeticamente, negli Scritti Orfici, Goethe esprimeva così la metafora dell’oroscopo astrologico: “Allo stesso modo in cui nel giorno in cui nascesti il sole si offrì al saluto dei pianeti, così in seguito crescesti in base alla legge di quell’ora. Così dev’essere, sfuggire non puoi. Già lo dissero profeti e sibille, e nessun tempo e nessuna forza può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve.”