Paranoia sociale e collettivismo irrazionale

Il recente episodio di chiusure generalizzate e prolungate per due giorni a causa dell’allerta pioggia non poteva non richiamare alla memoria le restrizioni vissute nel biennio del Coronavirus. Premetto che non è mia intenzione alimentare polemiche né, tantomeno, ridestare ideologie inerenti a posizioni novax, provax o quant’altro. In quanto amante della psicologia sociale e interessato da sempre a dinamiche psichiche estendibili alla collettività umana, mi sto semplicemente chiedendo se il continuo stato di allerta che ci accompagna ormai da alcuni anni – con il pretesto della pandemia, del terrorismo, dei cambiamenti climatici e delle allerte meteo, delle guerre locali che possono diventare mondiali – sia motivato e fondato su presupposti reali oppure, piuttosto, artificiosamente inflazionato con il preciso intento di diffondere paranoia a livello sociale.

    Di recente ho avuto modo di leggere Psicologia del Totalitarismo, libro di Mattias Desmet che segue la strada già tracciata dalla filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt, la quale denunciava, già alla fine della seconda guerra mondiale, una fede cieca e irrazionale della collettività in una sorta di “finzione scientifica”, presupposto essenziale per il controllo sulla massa e abilmente architettata dagli organi di potere attraverso i mezzi di informazione, con la giustificazione di un nemico più o meno invisibile da debellare. Dice Desmet: “Ogni volta che nella società si affaccia una nuova causa d’ansia, un’unica risposta e una sola difesa sono approntate: maggiore controllo…la mania del controllo porta nuova ansia e l’ansia porta nuova mania di controllo. Così la società si arena in un circolo vizioso che ha come inevitabile esito il totalitarismo, ossia un controllo eccessivo esercitato dall’autorità e, infine, la completa distruzione dell’integrità psichica e fisica dell’essere umano.” Il fine, in sostanza, che poi fu anche degli Stati totalitari del Novecento, sarebbe quello trasformare le persone in soggetti atomizzati non pensanti e privi di creatività, rendendole isolate dai loro simili e dalla natura ma, allo stesso tempo, più suggestionabili e controllabili.

    Esiste peraltro una sostanziale differenza sul piano psicologico tra i totalitarismi dello scorso secolo e il totalitarismo attuale: mentre le dittature si basavano sulla paura fisica,  che permetteva al regime di turno di imporre unilateralmente un contratto sociale, le recenti politiche totalitariste affondano le proprie radici nel processo sociale e psicologico della cosiddetta “formazione di massa”. Essa si articola sui seguenti punti:

disponibilità al sacrificio cieco degli interessi personali in favore della collettività; radicale intolleranza per le voci dissidenti; mentalità paranoicamente delatoria, che permette agli organi di controllo di indagare nel privato dei cittadini; singolare suscettibilità all’indottrinamento e alla propaganda con argomenti pseudoscientifici; pedissequa adesione ad una logica agghiacciante che supera ogni limite etico; perdita di ogni soggettività e creatività; autodistruttività che porta al crollo finale del sistema totalitario.

   Affinché si realizzi una formazione di massa devono verificarsi le seguenti quattro condizioni: solitudine generalizzata; mancanza del senso della vita; senso generalizzato di frustrazione e di aggressività; diffusione latente di ansia, paura e panico. Naturalmente, per rendere fattibile tale realizzazione, c’è il bisogno di un’informazione unidirezionale e priva di voci dissidenti, la quale, da un lato, genera suggestione a livello sociale, dall’altro placa l’ansia latente generalizzata costruendo un’ampia base sociale, mentalmente gestibile e favorevole a sostenere la miglior strategia per sconfiggere il nemico invisibile.    

    Già Gustave Le Bon, precursore di Sigmund Freud, all’inizio del Novecento diceva che nei casi di totalitarismo l’anima individuale, nel venir assorbita dall’anima di gruppo, perde la ragione e il distanziamento critico, abbandonandosi invece a impulsi che, in circostanze ordinarie, sarebbero considerati totalmente immorali. In sostanza, l’individualismo e il razionalismo nei singoli membri della società virano improvvisamente verso lo stato, completamente opposto, del collettivismo irrazionale. Per dirla in termini nietzschiani, Dioniso rovescia in un colpo la dittatura di Apollo e prende il potere nella società.

   Nella formazione di massa il movente principale è una solidarietà con il collettivo, e chi se ne astiene viene immancabilmente tacciato di mancanza di senso civico. Questa è una delle ragioni per cui anche gli argomenti più deliranti di una narrazione che la coinvolge – tipo la necessità di una mascherina da indossare all’aperto con la bora a cento all’ora e all’una di notte –  non hanno alcun rilievo per la massa, la quale crede ciecamente nella narrazione ufficiale, non perché sia giusta, ma perché crea un senso di unione tra singoli individui che si sacrificano per la causa comune, rigorosamente unilaterale e ritenuta la sola perseguibile dall’informazione pseudoscientifica. In pratica è come essere allo stadio; la voce del singolo si fonde con il coro degli ultras: cosa si canti non importa, purché si canti assieme. E così, nella formazione di massa, non importa ciò che si pensi, purché lo si pensi assieme alla massa.

L’arte di amare

Nel 1956 lo psicologo Erich Fromm scrisse L’arte di amare, un compendio di consigli per esercitare al meglio, in una società capitalistica orientata in quegli anni verso un crescente consumismo, una delle pratiche più importanti ma anche più difficili. Uno dei punti focali della sua analisi è la distinzione tra amore dipendente e amore indipendente, conseguenza diretta di un’altra polarità importante, e cioè quella tra bisogno di integrarsi con l’altro – inteso come singola persona o collettività più ampia – e necessità di valorizzare una diversità del proprio essere, autonoma e distaccata dal partner o dai suoi simili sociali.

    L’amore dipendente nasce essenzialmente da un’ansia di solitudine, la quale, più o meno indirettamente, segue dal timore o dall’incapacità di non riuscire a dar voce alla propria diversità nel rapporto con gli altri. Da qui il bisogno di fusione simbiotica col partner o con la società, che può variare da un vivere conformista alla dipendenza da alcolici e da sostanze stupefacenti, fino a diventare l’amore malato e distorto del sadomasochismo. In tutti questi casi, l’Io, non distinguendosi e non valorizzandosi come entità autosufficiente, necessita di un’amplificazione nell’altro-singolo o nelle tendenze comportamentali di tipo sociale per poter sopravvivere. Un’altra importante caratteristica dell’amore dipendente è quella di un legame speculare tra il dare e il ricevere, che genera ad esempio l’amore interessato e opportunistico, e dal quale si aspetta sempre qualcosa in cambio. E’ un amore simile ad uno scambio commerciale, che Erich Fromm vede come naturale conseguenza di una società orientata verso il consumismo, in cui l’avere prevale sempre sull’essere, così come l’immagine che fingiamo di noi stessi per essere apprezzati dagli altri è più importante del vero sé interiore. Può succedere, peraltro, sempre in una logica di interscambio tra dare e ricevere, che si abbia il timore o l’odio per l’altro sesso – come avviene nei casi di impotenza e di frigidità – dove alla paura inibita, più o meno consapevole, di concedersi all’altro corrisponde la sicurezza di non dover ricevere nulla in cambio.

    Secondo Fromm, invece, l’amore sano è quello che dà senza aspettarsi nulla in cambio, conseguenza di un’azione volontaria e attiva dell’essere. Ma è maturo e sano anche l’amore indipendente, che si fa unione a due a condizione di preservare le singole individualità. Egli dice espressamente: “L’amore è un potere attivo dell’essere umano, che annulla le pareti che lo separano dai suoi simili, che gli fa superare il senso di isolamento e di separazione, e tuttavia gli permette di essere se stesso e di conservare la propria integrità. Sembra un paradosso, ma nell’amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due…L’amore è possibile solo se due persone comunicano tra loro dal profondo del loro essere, vale a dire se ognuna delle due sente se stessa dal centro del proprio essere. Solo in questa esperienza profonda è la realtà umana, solo là è la vita, solo là è la base per l’amore. L’amore, sentito così, è una sfida continua; non è un punto fermo, ma un insieme vivo, movimentato; anche se c’è armonia o conflitto, gioia o tristezza, tutto è d’importanza secondaria dinanzi alla realtà fondamentale che due persone sentono se stesse nell’unione, che sono un unico essere solo essendo un unico con se stesse anziché sfuggire da se stesse.”

    L’unione di due amori indipendenti diventa, in tal modo, un’opportunità che permette di conoscersi meglio nel riflesso dell’altro. Come diceva anche Carl Gustav Jung, l’amore è principalmente proiezione psichica del nostro genere opposto sul partner di cui ci innamoriamo, ovverossia, di un lato inconscio di noi stessi che si manifesta, al di là del volere cosciente, attraverso la dinamica relazionale. Ed è per questo motivo che l’innamoramento per il partner è un riflesso di un innamoramento verso noi stessi, giacché la persona prescelta ha sempre a che vedere con la nostra interiorità. Non si confonda, però, l’amore indipendente, col quale conoscere il proprio sé attraverso la proiezione relazionale, con il narcisismo. Nel mito, infatti, Narciso viene punito all’innamoramento della propria immagine, perché prima ha respinto l’amore della ninfa Eco in quanto troppo più bello di lei. Allo stesso modo, i narcisisti stentano a riconoscere l’amore come proiezione psicologica tra due persone, perché questo li esporrebbe al pericolo di una temuta autosvalutazione, dato che nel riflesso dell’altro emergono sempre i lati meno gradevoli della personalità. Ciò spiega, ad esempio, perché i narcisisti sono particolarmente sensibili alle bugie del partner, poiché non possono accettare l’emergere di un lato oscuro della loro personalità – l’essere bugiardi appunto – che minerebbe la loro autoglorificazione.     L’arte di amare, allora, oltreché essere un donare disinteressato svincolato da quanto si riceve, deve porsi come prezioso strumento di conoscenza interiore. Il vero amore, cioè, è quello in sintonia con l’oracolo dell’antica Delfi, dove troneggiava la scritta “conosci te stesso”. Solo così l’amore non è più dipendenza nevrotica dall’altro o paura del lato oscuro dell’inconscio personale, ma diventa un’esperienza psicologica fondamentale e vitale, un amore verso se stessi con il quale riconoscere, rispettare e liberare la parte più intima della personalità, che cerca di farsi strada sin dalla nascita e che oppone resistenza durante tutta l’esistenza aai condizionamenti familiari e sociali.     

Il baratto libertà-sicurezza

Grandi filosofi e psicologi del passato come Nietzsche, Freud e Fromm hanno detto che la libertà è una grande aspirazione umana ma anche un peso da sopportare. Sartre diceva esplicitamente che “la libertà è una condanna”, in quanto pone di fronte alla responsabilità di una scelta individuale, che viene spesso trasferita a coloro che comandano e dimostrano di decidere per il nostro bene, come dimostra la lunga storia delle società civilizzate.

    Esistono due fondamentali e contraddittorie pulsioni nella psiche umana: una pulsione all’apertura, che dà un senso di libertà e spinge alla conoscenza, a viaggiare, a varcare gli orizzonti e a fantasticare una natura senza limiti, e una pulsione alla chiusura, che pone la sicurezza, la protezione e la garanzia come obiettivi primari. E’ una pulsione securitaria, che fa dell’autoconservazione di se stessa il suo fine ultimo. Tale pulsione esclude l’apertura all’ignoto, perché lo teme. Dice Canetti: “l’uomo nulla teme di più di essere toccato dall’ignoto”. L’ignoto, dunque, non è la meta della spinta all’aperto, ma è luogo di timore, che ci espone al tocco intrusivo dell’altro. Il Covid ha chiaramente inasprito questo timore dell’essere toccati da possibili contagi ignoti, lo abbiamo fisicamente vissuto camminando per le strade, con gente che evitava intimorita di passarsi vicino. Ecco allora che la distanza dall’ignoto ci dà sicurezza: un metro, due metri, quattro metri? E’ una distanza salvifica che stabilisce la frontiera tra l’io e il pericolo rappresentato dall’altro.

    Anche politicamente, prima ancora del Covid, sembra essersi affermata un po’ in tutto il mondo una strategia mirata a cavalcare la paura dello straniero e a tutelare la nostra pulsione securitaria (il muro di Trump, la Brexit degli Inglesi, la chiusura dei porti in Italia). Al paradigma neoliberale della globalizzazione dei mercati e della dissoluzione dei confini si è sostituito il paradigma della chiusura e della protezione. Le politiche nazionali sono diventate così sempre più strategie securitarie garanti di gusci protettivi, per proteggere la tendenza dell’essere umano a evitare le eccitazioni provenienti da un esterno reso volutamente nemico e ostile. Il “difforme”, che abita al di là del guscio o al di là della frontiera, va dipinto allora come “deforme”, e questo è stato fondamentalmente il principio che ha alimentato tutti i razzismi e ha giustificato le militarizzazioni, i presidi dei confini e le guerre.

   Come dice bene Recalcati, il confine si ammala quando diventa muro, quando il suo fine non è più scambio o luogo di transito, ma solo protezione, anche se la protezione avviene in cambio della libertà individuale. Il suddito si priva allora dal peso della libertà – che gli permetterebbe di scegliere qualcosa per la sua vita – e si fa obbediente al padrone che in cambio gli promette sicurezza. Freud diceva: “l’essere umano è assetato di obbedienza, cerca un padrone, perché in questo modo si vuole liberare dalla libertà della scelta, dal peso della libertà.” In sostanza, un essere umano è disposto a scambiare la sua felicità in cambio della sua sicurezza. Ma le politiche della sicurezza, per giustificare i loro atti unilaterali e antidemocratici, hanno bisogno di far leva sulla paura della gente. E così non deve stupire più di tanto che il presidente Draghi, nel suo discorso del 6 agosto alla nazione dopo il primo dpcm sul green pass, dica senza mezzi termini che “chi non si vaccina sceglie di morire”.

    Anticipando Draghi, già nel XVII secolo il filosofo Thomas Hobbes diceva che lo Stato esiste perché deve proteggere i suoi cittadini dalla paura della morte. E se la morte arriva dal diverso, dal difforme, dall’ebreo o dal non vaccinato, tutto è giustificato per le azioni dello Stato. Lo stesso Umberto Eco intitola “il fascismo eterno” l’ultima delle sue conferenza, pubblicata postuma, sostenendo che c’è una spinta irriducibile dell’umano a vivere l’altro come un intruso, e che, come diceva Spinoza, porta a preferire le catene alla libertà. Della stessa idea è Eric Fromm, che nel suo libro “Fuga dalla libertà” estende la categoria del sadomasochismo al sociale, sottolineando la propensione della massa a sottomettersi al “grande protettore magico”, garante della tutela in cambio della cessione di libertà individuali.

    Ci dobbiamo infine chiedere se sia giusto barattare la libertà democratica di scegliere cosa fare del proprio corpo e della propria vita    con l’unica sicurezza che lo Stato ci offre. Ma siamo poi certi che quella del vaccino esteso alla totalità dei cittadini sia l’unica sicurezza possibile? Sorge il dubbio, a qualche complottista come il sottoscritto, che sia diventata unica perché sono state sottratte tutte le cure che si sono dimostrate efficaci. Sorge allora un altro dubbio, sempre a noi complottisti no vax, che la verità scientifica sia stata barattata con le logiche di mercato, intese a favorire i big pharma con la manipolazione dei dati della pandemia (su tutti la sovrastima del numero dei morti e la sottostima dei danni gravi post vaccino).

   Concludendo, vorrei ricordare che la parola “scegliere” è affine etimologicamente alla parola “eresia” (scelta, infatti, è la traduzione del greco airesis e del latino haeresis). Sempre i latini ci ricordano che la parola “intelligenza” deriva da inter-legere, che letteralmente significa scegliere-tra. Forza e coraggio, eretici no vax, tamponati e discriminati, siate orgogliosi della vostra intelligenza e della vostra libertà  

Perché Roma fu fondata il 21 aprile?

Non si pensi che la scelta di un territorio su cui fondare le città delle culture millenarie, né tantomeno la fissazione del momento in cui farlo, siano circostanze frutto del caso. Viene per esempio da chiedersi perché le mappe di tre città antiche quali Gerusalemme, La Mecca e Roma siano caratterizzate dalla presenza di sette colli. E’ noto che il numero sette veniva investito di valenze particolari nell’esoterismo antico, ma esiste qualcosa di ancor più specifico che vale la pena di esaminare.

Va innanzitutto detto che gli astri più visibili in cielo – come le Pleiadi, le stelle dell’Orsa Maggiore e Minore – si dispongono spesso a gruppi di sette. Ed è anche per questo che nelle versioni esoteriche dei tarocchi, le Stelle (diciassettesimo degli arcani maggiori) è connotato dalla presenza di sette stelle e una stella più grande, raffigurante probabilmente il sole. Si ricordi inoltre che il motto di Ermete Trismegisto “come in alto così in basso” stabiliva una legge di corrispondenza analogica tra le cose in cielo e quelle in terra, cosicché ci sono validi motivi per credere che i sette colli delle città sante dovessero replicare in terra, in qualche modo, la dislocazione in cielo delle Pleiadi, le famose Sette Sorelle della volta celeste, le stelle sicuramente più note fin dai tempi antichissimi.

Per quanto concerne Roma, una testimonianza scritta della corrispondenza tra i sette colli e le sette Pleiadi la si trova nel libro V dei Fasti di Ovidio, dove il poeta latino fa dire a una delle muse i segreti sulla fondazione della città eterna. In particolare, si narra che la stella Maia – la più centrale e luminosa della costellazione e la cui controparte, sul piano speculare terrestre, sarebbe rappresentata dal colle Palatino, su cui Romolo fondò Roma – fosse la misteriosa divinità tutelare e protettrice di Roma, il cui nome andava rigorosamente tenuto segreto. E la segretezza del suo nome era indotta dal fatto che, per non esporre la città al rischio di attacco nemico, nessuno avrebbe dovuto sapere di questa connessione della stella Maia con la fondazione, che naturalmente si sarebbe rivelato come prezioso indizio della corrispondenza tra i colli, le Pleiadi e la mappa geografica dell’urbe. Si racconta, a proposito, che nell’82 a. C. il tribuno Valerio Sorano sarebbe stato condannato a morte proprio per aver trasgredito questo divieto. La medesima sorte sarebbe toccata anche a Ovidio, ma pare che la pena di morte del poeta fu tramutata in esilio dall’imperatore Augusto. Certo è che la tentazione di rivelare l’arcano su Maia e Roma fu irresistibile per l’abruzzese e giovane provinciale Ovidio, nato a Sulmona, città collocata ai piedi della Maiella e da sempre consacrata alla dea Maia (da cui deriva anche il suo nome).

Ma oltre alla corrispondenza spaziale tra le Pleiadi e i sette colli, vi è anche una coincidenza temporale astrologica che pochi sanno. I fondatori di Roma non potevano infatti non conoscere il calendario mesopotamico, dove la data del 21 aprile fissava l’inizio del secondo segno zodiacale, corrispondente alla costellazione del Toro, e che, non a caso, è l’unica a contenere le 7 Pleiadi.   

L’astrologia secondo Keplero e Goethe

Che tra gli astrologi e gli astronomi non scorra buon sangue è cosa nota. Ciò che naturalmente divide maggiormente queste due categorie di sapienti è il concetto di “influsso planetario”. Gli astronomi, a ragione direi, sostengono che non vi possa essere un influsso fisico dei pianeti del sistema solare sulle vicende degli esseri umani. E questo sembra un punto condivisibile e sensato. Come può, in effetti, un pianeta così lontano da noi, ad esempio Plutone, influire sui nostri comportamenti e sul nostro destino? Neppure la Luna, che ci consiglia quando è meglio andare dal parrucchiere affinché un taglio di capelli possa durare di più, non è alla fine un pianeta che influisce in maniera sostanziale sulla nostra vita. Tra l’altro, gli influssi planetari così concepiti avrebbero i medesimi effetti su tutti gli abitanti della Terra, senza distinzione alcuna.

L’astrologia credibile, quella cioè che dovrebbe modellare il destino degli uomini, non è dunque una questione di influssi fisici a distanza, né tantomeno di causalità, intesa come causa astronomica cui corrisponde un’azione umana. Dalle recenti scoperte della fisica quantistica emerge tuttavia un nuovo mondo, dove non c’è posto alcuno per la causalità, ma in cui tutto avviene simultaneamente all’interno di un mega contenitore cosmico dotato di memoria perenne, come avevano intuito bene già gli antichi Veda con i registri akashici. Secondo questa nuova-antica concezione, l’astrologia assume un altro significato; non è l’influsso dei pianeti che determina le azioni degli uomini secondo una legge di causalità, ma è un simbolismo planetario a fare da cassa da risonanza universale sui caratteri degli individui, e dunque, a stabilire una tendenza prevedibile del loro modo di agire.

Tra gli astronomi, Margherita Hack fu quella che più si è accanita sui malcapitati astrologi, dall’alto di un fare arrogante e schernente che è tipico di alcuni intellettuali dogmatici. Ma probabilmente, la nostra pur rispettabile astronoma toscana non venne mai a conoscenza dell’opinione che uno dei suoi più grandi maestri, tale Johannes Keplero, aveva sull’astrologia:

“In che modo la configurazione del cielo al momento della nascita determina il carattere? Essa agisce sull’uomo durante la sua vita come le cordicelle che un contadino annoda a casaccio attorno alle zucche nel suo campo: i nodi non fanno crescere la zucca, tuttavia ne determinano la forma. Lo stesso vale per il cielo: non dà all’uomo le sue abitudini, la sua storia, la sua felicità, i suoi figli, la sua ricchezza, la sua sposa…però modella la sua condizione…”

A portare acqua al mulino degli incompresi e screditati astrologi, due secoli dopo Keplero, fu anche il grande letterato Johann Wolfgang Goethe, che negli Scritti orfici immortala la “vecchia prostituta della scienza” con questi versi:
“Allo stesso modo in cui nel giorno in cui nascesti / il Sole si offrì al saluto dei pianeti, / così in seguito crescesti in base alla legge di quell’ora. / Così dev’essere, sfuggire non puoi, /già lo dissero profeti e sibille, / e nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve.”

Perché festeggiamo il Natale e il Capodanno

    Vi siete mai chiesti perché siano tanto importanti per le società di ogni latitudine i festeggiamenti di Natale e Capodanno? Perché c’è un interesse così diffuso nel mondo di onorare il rito della natività cristiana o quello dell’inizio di un nuovo anno? I motivi, in verità, vanno ben al di là di questioni religiose o ritualistiche, giacché hanno a che fare con dinamiche psichiche a sfondo sociale.

    Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che l’uomo desidera inconsciamente abolire lo spazio e il tempo per ritrovare la famiglia dei suoi simili. Sembrerebbe una duplice necessità un po’ paradossale, specie in un’epoca moderna caratterizzata sempre più da spostamenti spaziali e frenesie temporali. Eppure, come insegna Mircea Eliade, antropologo rumeno e storico delle religioni, le società di ogni tempo – primitive, culturali, antiche e moderne – prediligono da sempre compattarsi periodicamente attorno a due elementi essenziali della vita pubblica: il “centro” e l’”inizio”.

   Il “centro” è un unico punto dove tutte le direzioni convergono e lo spazio svanisce. E’ per esempio il punto in cui è avvenuto l’atto divino della creazione cosmica, narrato in tutte le mitologie e le cosmogonie, oppure è il luogo che veniva consacrato con la costruzione di un altare o di un tempio, per poi raccogliere attorno a sé i fedeli di una comunità. Più semplicemente, il centro è anche la piazza principale o la chiesa di ogni paese, in cui tutta la collettività si riunisce e si ricompatta. Un simbolo mitologico di centro è l’albero cosmico (detto anche Axis Mundi) che congiunge il Cielo, la Terra, l’Inferno e su cui tutto l’universo si sostiene. Per questo motivo, fare l’albero di Natale significa ancor oggi ricongiungerci ad un centro, ovverossia annullare lo spazio che separa la nostra abitazione dal centro dell’universo sociale, facendola coincidere con esso.

    L’”inizio” è invece un generico tempo zero, un non tempo, un istante eternamente presente. E’ il tempo della creazione o dell’atto cosmogonico, oppure il tempo mitologico in cui avvennero le gesta eroiche delle divinità in ogni cultura, oppure ancora l’imprecisato c’era una volta delle fiabe, dove sono cristallizzati tutti gli archetipi comportamentali – le paure di Cappuccetto Rosso, le scappatelle di Zeus, le gelosie di Era, la verginità di Persefone, lo stupro di Ade, gli amori di Eros e Psiche, le ire di Ares e di Medea – che da sempre influiscono sulle dinamiche inconsce degli esseri umani. E così, il 25 dicembre diventa l’inizio emblematico della cristianità, natività per eccellenza. Lo stesso presepe sotto l’albero natalizio non fa che riunire l’inizio del tempo con il centro dello spazio. Il Capodanno, dal canto suo, oltre che essere l’inizio cronologico dell’anno solare, coincide simbolicamente con l’inizio della creazione cosmica. Le esplosioni di petardi e dei fuochi d’artificio stanno a rappresentare a loro volta l’esplosione cosmica, il big bang da cui tutto ha avuto origine. Non è neppure un caso che tra Natale e l’Epifania, con la quale terminano le festività, intercorrono esattamente dodici giorni, cioè quanti sono i mesi dell’anno. Le festività natalizie vengono dunque ad essere l’eterna replica dell’anno solare, con la quale ogni società annulla l’ordinario fluire del tempo.

   Rimane da chiarire perché l’uomo desideri abolire inconsciamente lo spazio e il tempo. Innanzitutto, va detto che l’abolizione dello spazio e del tempo sono le condizioni necessarie per accedere all’inconscio, luogo in cui, come già insegnava Freud, le categorie di spazio e di tempo vengono a mancare (come avviene di frequente in sogno, il linguaggio privilegiato dell’interiorità psichica). L’abolizione dello spazio e del tempo, con il ritorno periodico al centro e all’inizio, permette perciò all’uomo dall’identità smarrita di ritrovare inconsciamente il suo gruppo di appartenenza. In altre parole, le ritualità sono benefiche a livello inconscio perché la collettività, attraverso di esse, restituisce un senso esistenziale a tutti i suoi componenti. Non dovrebbe allora sorprendere perché nella nostra epoca moderna, dove i valori coesivi delle famiglie e dei gruppi vengono sempre meno, lo scambio degli auguri è divenuto un gesto sempre più importante e ricorrente, con il quale, al di là del significato rituale in sé, l’individuo manifesta il suo inconscio bisogno di ritrovare una famiglia su scala sociale per non sentirsi più tanto solo.

Genio e immoralità, compromesso accettabile?

La recente morte di Diego Armando Maradona, eroe moderno delle folle calcistiche nonché personaggio con una vita privata molto discutibile, ci pone di fronte alla questione del controverso connubio tra genialità e immoralità. Ad un uomo che per un decennio ha tenuto vivi i sogni di un’intera nazione come quella argentina e riscattato la condizione di povertà e di inferiorità dei quartieri più disagiati di Napoli, possiamo perdonare il lato oscuro di un carattere irriverente alle regole, che lo portò alla vita dissoluta e a sfondo sessuale delle feste a cui veniva invitato, dove iniziò anche ad assumere la cocaina procurata dalle amicizie con la camorra? E che dire dell’evasione fiscale di una parte delle ingenti cifre guadagnate, oppure ancora, del mancato riconoscimento del figlio nato da una relazione segreta con Cristina Sinagra?

Nella storia dell’umanità sono molti gli esempi di personaggi famosi che hanno vissuto nell’ambivalenza tra un paradiso disseminato di genio e l’inferno di indegne condotte immorali. In questi giorni, il critico Vittorio Sgarbi ha fatto l’accostamento suggestivo tra Maradona e Caravaggio – accusato di due omicidi in una vita molto tormentata – giustificando il male individuale che, nell’esaltazione delle capacità artistiche, si riscatta col generare il bene che poi viene donato alla collettività. A un appassionato di astrologia come me viene più naturale l’accostamento tra il Pibe de Oro e Picasso, entrambi dello Scorpione, segno contraddistinto per un esistenza dai toni drammatici, in uno stato di continua tensione tra spiritualità e materialità, tra idealizzazione e autodistruzione, tra aggressività erotizzata e passioni imperiose. Nella vita privata, il pittore andaluso generò arte sublime ma seminò anche dolore e distruzione tra le donne che gravitarono nella sua orbita; Olga perse il senno e morì nel 1955, Marie-Therese si impiccò nel 1977, Jacqueline si sparò un colpo alla tempia nel 1986, Dora subì diverse crisi depressive dopo essere stata da lui ripetutamente picchiata. Potremmo però dire che Picasso ha sì distrutto materialmente le muse della sua arte, ma in cambio le ha rese spiritualmente immortali con le sue opere.

Di nuovo, come ha fatto Sgarbi, viene da chiedersi se le malvagità a livello morale commesse da Maradona e Picasso siano state compensate con il bene che ci hanno lasciato in eredità. Probabilmente la bellezza eterna e sublime di quadri come Les Mademoiselles de Avignon o Guernica, oppure quella del “gol del siglo” che il talento argentino fece ai mondiali dell’86 con l’Inghilterra, percorrendo metà del campo e scartando mezza squadra avversaria fino ad arrivare in porta con la palla incollata al piede, rimarrà il più equo risarcimento nei confronti dell’umanità per il male morale commesso.

E’ sufficiente dunque la bellezza per redimere dal male? Forse un altro Scorpione come Dostojevskij intendeva anche questo nel dire che “la bellezza salverà il mondo”. Di certo, Baudelaire non sembra avere dubbi in proposito. Lo scrittore francese era del segno dell’Ariete, ma aveva forti valenze scorpioniche nell’oroscopo (per gli “addetti ai lavori”, Marte e Plutone congiunti, molti pianeti nell’Ottava Casa). Per lui la bellezza era lo stato ipnotico per dimenticare le tristezze della vita, la droga per abbandonarsi all’estasi di un effimero momento di gioia. Nella sua opera più importante, “I Fiori del Male”, troviamo la splendida poesia “Inno alla Bellezza”, che mi piace immaginare come l’epitaffio sulla tomba del più grande genio che il calcio abbia mai avuto. Adios Dieguito, descansa en paz.

Venga tu dall’inferno o dal cielo che importa,

Bellezza, mostro immane, mostro candido e fresco,

se il tuo piede, il tuo sguardo, il tuo riso

la porta m’aprono a un Infinito che amo e non conosco?

Arcangelo o Sirena, da Satana o da Dio,

che importa se tu, o fata dagli occhi di velluto,

luce, profumo, musica, unico bene mio,

rendi più dolce il mondo, meno triste il minuto?

L’eterno ritorno del tempo e dello spazio

Il mitologo rumeno Mircea Eliade ritiene il sacro come innanzitutto qualche cosa di ganz andere, che nella lingua tedesca significa “completamente diverso”. E poiché non assomiglia a nulla di umano e terreno, il sacro può fare a meno di obbedire alle concezioni ordinarie di spazio e tempo. La stessa parola “consacrare”, sinonimo di “rendere immortale”, dà il privilegio a qualcosa o a qualcuno di sopravvivere nel tempo e in ogni luogo del pianeta. Sempre Eliade, distinguendo tra sacro e profano, suggerisce due categorie radicalmente differenti di spazio e di tempo.

    Lo spazio sacro per antonomasia è il luogo in cui è avvenuto l’atto cosmogonico. Tale luogo viene assunto come il naturale Centro (o ombelico) del Mondo, da cui, come in un’esplosione cosmica simile ad un big bang, si sono diradate tutte le possibili molteplicità dei fenomeni. Uno spazio sacro con le medesime caratteristiche di centralità è l’Axis mundi, che collega e sostiene il Cielo e la Terra, e la cui base è conficcata sottoterra sino a raggiungere l’Inferno. Il Centro, qui, è il punto di intersezione della triade Cielo-Terra-Inferno, ed è l’unico luogo spaziale in cui risulta possibile una transizione e una comunicazione tra le tre regioni cosmiche. Da esso, successivamente, irrompono nel Mondo tutte le ierofanie (letteralmente “manifestazioni del sacro”) che si consolidano nel tempo sotto forma di credenze, miti e riti della vita collettiva.

    L’atto di creazione del cosmo, in quanto prima irruzione del sacro nel Mondo, diventa a sua volta l’archetipo di ogni azione creatrice dell’uomo, in primis la consacrazione di un territorio appena conquistato. E’ con tale atto, del resto, come osserva opportunamente Eliade, che l’uomo si rende simile agli dèi, ripetendo, in versione circoscritta, l’opera esemplare della cosmogonia, che è l’atto divino per eccellenza. In più, con la scelta esistenziale di un habitat universale, l’uomo trascende al contempo tempo e spazio profani, giacché la scelta è fatta in eterno e in una fissità spaziale che non prevede più spostamenti in futuro. Il Centro esistenziale, consacrato e prescelto per la costruzione della città-cosmo, si scinde successivamente in una molteplicità di Centri coordinati – il tempio, la chiesa, il campanile, il cimitero, il municipio, la piazza principale – in cui la comunità degli uomini si riunisce periodicamente nel rispetto di rituali prestabiliti.

    Dice Mircea Eliade: “Se qualsiasi territorio abitato è un cosmo, ciò avviene proprio per il fatto che esso è stato innanzitutto consacrato, perché esso, in un modo o nell’altro, è opera degli dèi, ovvero comunica con il loro mondo. Ogni mondo abitato è allora un universo entro il quale il sacro si è già manifestato.” (Il sacro e il profano, p. 24)

   Tutto ciò è reso molto esplicito nel rituale vedico relativo alla conquista di un territorio, che prevedeva l’erezione di un altare del fuoco in onore di Agni. Tale finalità fonda le sue radici nel mito di Prajapati, il creatore del Mondo rimasto senza arti a causa della sua stessa creazione. Mentre tutti gli dèi lo abbandonano, uno spirito vitale a forma di uccello esce da lui e vola ad esortare Agni, il dio del fuoco, affinché si realizzi la ierofania della materializzazione in altare del demiurgo. L’erezione del Centro sacro doveva pertanto replicare la Creazione su un piano microscopico: l’acqua con cui si impastava l’argilla fungeva da Acqua primordiale, l’argilla sulla quale poggiava l’altare era il simbolo della Terra, le pareti laterali rappresentavano l’Atmosfera, ecc. L’altare, peraltro, doveva soddisfare a delle precise regole geometriche, così come era previsto dai Sulvasutra, veri i propri trattati matematici della cultura vedica. La più importante di queste era il principio di invarianza della forma al mutare delle dimensioni, acciocché il divino creatore ricostruito mantenesse qualcosa della sua precedente identità. Lo stesso avviene nel famoso “problema di Delo” degli antichi Greci, risolto dal pitagorico Archita, e che consisiteva nel raddoppiare il volume dell’altare cubico dei sacerdoti di Apollo.   

Con la ripetizione dell’atto cosmogonico, non solo lo spazio profano si riorganizza in uno spazio sacro dotato di uno o più Centri, ma anche il tempo ordinario è proiettato in illo tempore, istante sacro in cui è avvenuta la fondazione del Mondo. Lo stesso principio vale naturalmente per tutti i miti successivi all’atto cosmogonico, che hanno stabilito il tempo mitico dell’inizio, quando cioè l’atto divino è stato compiuto per la prima volta. Ogni mito, compreso l’atto cosmogonico, ci riporta dunque in uno spazio sacro e in un tempo sacro, rispettivamente il Centro e l’Inizio di un atto archetipico compiuto da un dio per la prima volta. I riti e le credenze dei popoli hanno avuto poi il compito di rigenerare i miti per mezzo della ripetizione e dell’imitazione degli archetipi divini, dando la possibilità agli uomini di diventare periodicamente contemporanei degli dèi.

In definitiva, è con l’eterno ritorno al mito archetipico che spazio e tempo profano vengono aboliti per via di una consacrazione. Sacro e archetipo, nella visione antropologica di Eliade, divengono perciò sinonimi. Ed è questa stretta analogia, sempre secondo il mitologo rumeno, a dirci che la storia del cosmo non è una sequenza temporale di eventi umani, ma “storia sacra” conservata e trasmessa dai riti, gli unici in grado di rigenerare indefinitamente le società degli uomini nell’acqua battesimale degli archetipi  

I consigli di Gurdjieff per vivere meglio

Le antiche cosmologie orientali hanno da sempre immaginato la materia che compone l’universo come una danza in uno stato di vibrazione continua. Lo credeva anche Gurdjieff, maestro di danze armene e filosofo mistico noto in Occidente. I suoi insegnamenti, frutto di un mirabile intreccio tra musica pitagorica e tradizione alchemica, ci raccontano di un universo fatto di frequenze (come quelle delle note musicali) e di gradazioni diverse di materialità, che stabiliscono il livello di rarefazione e di condensazione di tutte le sostanze. Frequenza delle vibrazioni e densità della materia risultano poi inversamente proporzionali tra loro, nel senso che minore è la frequenza di una vibrazione (più bassa è una nota) e più densi e pesanti sono gli atomi che compongono la materia.

    Gurdjieff faceva spesso riferimento alla “tavola degli idrogeni”, molto simile per concezione alla tavola periodica degli elementi chimici. In uno e nell’altro caso, idrogeni ed elementi vengono ordinati dall’alto verso il basso all’aumentare del peso atomico. Nella parte bassa della tavola degli idrogeni si trovano, così, le sostanze più pesanti e dense: ferro (idrogeno H3072), legno (H1536), cibo per uomo (H768), acqua (H384), aria (H192), fuoco, gas rarefatti, ormoni, vitamine, magnetismo animale, emanazioni del corpo umano (tutti idrogeni H96). Nella parte più alta della tavola, dall’idrogeno 48 all’idrogeno 6, c’è invece la materia più rarefatta e leggera, che contraddistingue tutti i fenomeni psichici e spirituali. La chimica di Gurdjieff considera pertanto non solo le proprietà ordinarie della materia, quelle cioè che sono note ai fisici e ai chimici, ma tiene conto anche di sostanze invisibili e non direttamente percepibili, come appunto quelle psichiche e spirituali, purtuttavia presenti nel cosmo e a cui va attribuito un ruolo essenziale nell’evoluzione degli esseri umani.

   E’ importante tener presente che gli idrogeni più rarefatti, essendo diffusi ovunque nel cosmo per mezzo di onde che vibrano a determinate frequenze, sono peraltro rintracciabili in ogni individuo in virtù di un doppio principio di relatività: il primo prevede che le materie più fini sono in grado di permeare quelle più grossolane (ad esempio, un gas può pervadere un liquido, che a sua volta può infiltrarsi in un pezzo di legno); il secondo principio è il famoso motto esoterico “come in alto così in basso”, con il quale si stabilisce che il microcosmo-uomo è un macrocosmo in miniatura, dotato delle stesse leggi e degli stessi elementi. L’obiettivo principale per l’evoluzione di ognuno di noi è quello, allora, di saper individuare e conservare gli idrogeni fini. A tal proposito, Gurdjieff fa l’esempio della respirazione. Respiriamo tutti la stessa aria (idrogeno 192), ma sebbene l’aria inspirata da persone diverse sia esattamente la stessa, l’aria espirata può essere molto diversa. Dal momento che gli idrogeni più fini permeano l’aria, possiamo catturarli con una semplice inspirazione, ma poi, con la successiva espirazione, dovremmo essere in grado di trattenere proprio gli idrogeni che sono simili a quelli di cui già disponiamo stabilmente dentro di noi, e che, per un principio di risonanza sonoro, fungono da magneti per le sostanze fini che inspiriamo. Non a caso, un’antica legge alchemica ricordava che “per creare l’oro, occorre avere già una certa quantità di oro dentro noi stessi”. L’alchimia, dunque, diventa per Gurdjieff la descrizione allegorica più appropriata del processo di evoluzione interiore cui è chiamato ogni individuo, e che consiste principalmente nel trasformare la materia prima – equivalente agli idrogeni grossolani della materia ordinaria – nella pietra filosofale, l’elisir di lunga vita costituito dagli idrogeni fini dei processi psichico-spirituali

    Per conservare gli idrogeni fini, sempre secondo il pensiero di Gurdjieff, abbiamo bisogno di due scosse addizionali, che possono arrivare solo da atti consapevoli di volontà. Anche in questo caso, il filosofo armeno ricorre all’analogia musicale di una scala maggiore, formata da sette intervalli con prima e ultima nota distanti un’ottava. Ai musicisti è noto che il terzo e il settimo intervallo della scala sono intervalli di un semitono, a differenza degli altri cinque, che sono invece intervalli di un tono. Per avere una progressione costante di toni, bisognerebbe aggiungere, in prossimità degli intervalli più brevi, due frequenze dell’ordine di un semitono (dette appunto “scosse addizionali”). In modo analogo, per mantenere un controllo costante sulla nostra evoluzione personale, occorre aggiungere due sforzi coscienti: il primo ci esorta ad un lavoro specifico sull’emotività, tale da trasmutare le emozioni negative che intralciano la vita in emozioni positive che elevano spiritualmente; il secondo consiste invece nel conoscere (o ricordare) se stessi, il che equivale a riconoscere gli idrogeni fini presenti stabilmente nella nostra interiorità.

    Un ulteriore compito che ci spetta, sempre in prospettiva di una crescita interiore, è quello di rendersi conto di tutti gli sprechi di energia che possono compromettere la conservazione degli idrogeni fini nel nostro organismo. Per comprenderlo meglio, Gurdjieff invitava i suoi allievi a immaginare l’uomo come una fabbrica chimica composta da tre centri operativi: il centro fisico, composto da intelletto, istinto, emozioni e sessualità; il centro emozionale superiore (o corpo astrale), contenente i daimones e le voci interiori; il centro intellettuale superiore, caratterizzato dagli stati estatici, mistici e di pre-morte. Il lavoro su se stessi dovrebbe principalmente servire per stabilire un contatto tra i centri, ma ciò è reso possibile solo ottimizzando il lavoro della fabbrica chimica. Corretta alimentazione, esercizi specifici sulla respirazione e pratiche spirituali coadiuvate da figure guida possono senz’altro favorire la comunicazione dei centri, ma bisognerà comunque evitare che la fabbrica sprechi le sue preziose risorse, come invece abitualmente accade nei casi di eccessi di rabbia, di emozioni negative e spiacevoli, di preoccupazioni immotivate, di stati di inquietudine, di dubbi e di paure, di parlare logorroico, di eccessivo fantasticare, di sbalzi di umore, di tensioni muscolari inconsce e di posture innaturali.

   Per concludere, non dovremmo mai dimenticare che tutti i processi psichici e spirituali hanno sempre a che fare con la materialità, seppure distinta nei suoi diversi gradi di condensazione e rarefazione. Tutto ciò non fa che avvalorare una volta di più la figura un po’ oscura degli alchimisti, a torto comparati a degli stregoni dall’entourage intellettuale. Un’unica voce fuori dal coro, quella di Carl Gustav Jung, ebbe il coraggio di proseguire la strada tracciata da Gurdjieff, ipotizzando che i criptici simboli alchemici e gli intrugli chimici delle fucine medioevali altro non sono che la testimonianza tangibile di un regno intermedio tra materia e spirito, in cui il fisico e lo psichico si fondono in un’unità indivisibile.      

Conoscenza, oligarchia e controllo di massa

“La conoscenza non può appartenere a tutti poiché è materialmente limitata. Se una certa quantità definita di conoscenza viene distribuita tra milioni di persone, ciascun individuo ne riceverà molto poca. Ma se, al contrario, grandi quantità di conoscenza sono concentrate in un piccolo numero di persone, allora questa conoscenza darà risultati straordinari. Da questo punto di vista, è molto più vantaggioso che la conoscenza sia preservata in un piccolo numero di persone e non dispersa tra le masse.

    Vi sono periodi nella vita dell’umanità, che generalmente coincidono col principio della caduta di culture e civiltà, in cui le masse perdono irrimediabilmente la ragione e cominciano a distruggere tutto ciò che era stato creato da secoli e millenni di cultura. Tali periodi di follia di massa, che spesso coincidono con cataclismi geologici, cambiamenti climatici e fenomeni simili di carattere planetario, rilasciano una grandissima quantità di materia di conoscenza, il che richiede un lavoro di raccolta di questa materia di conoscenza, la quale altrimenti andrebbe perduta. Pertanto il lavoro di raccolta della materia di conoscenza dispersa coincide spesso con il principio della rovina della caduta di culture e civiltà.

  Abbiamo dunque chiarito questo aspetto della questione. La folla non vuole conoscenza né la cerca, e i capi di folla, nel loro proprio interesse, cercano di rafforzare la paura e l’avversione per tutto ciò che è nuovo e sconosciuto. La schiavitù in cui vive l’umanità si basa su questa paura.” Queste sono le riflessioni dal sapore profetico del maestro Gurdjieff, rilasciate a san Pietroburgo nel 1916 e raccolte dal filosofo russo Piotr Demjanovich Uspenskij in un meraviglioso libro dal titolo “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”. Si tratta di una visione cinicamente oligarchica e antidemocratica della conoscenza, che per preservarsi e servire all’umanità intera, deve concentrarsi nella mente di pochi uomini illuminati onde evitare una sua distribuzione uniforme, pena il suo inevitabile spreco. Lo stesso principio, perché no, potrebbe giustificare peraltro una distribuzione altrettanto oligarchica della ricchezza, se pensiamo che oggi i 26 uomini più ricchi del pianeta possiedono più reddito che l’insieme di quattro miliardi di poveri. I cambiamenti climatici che stiamo vivendo negli ultimi anni, assieme alla congiunzione planetaria di Giove, Saturno e Plutone in Capricorno del 2019 e del 2020, fanno presagire, secondo le parole di Gurdjieff, un periodo in cui si dovrebbe assistere ad un rilascio considerevole di materiale di conoscenza. Verrebbe dunque da fare un sincero appello agli uomini dotti del pianeta affinché  partecipino a questa preventivata “raccolta di conoscenza”, prima che i “capi folla nel loro proprio interesse”, sotto le mentite spoglie di dotti benefattori – vedi Bill Gates e simili – abbiano la possibilità di orchestrare in futuro un poco auspicabile controllo collettivo di massa. Del resto, sempre seguendo le profezie di Gurdjeff, gli strumenti di manipolazione “che cercano di rafforzare la paura e l’avversione per ciò che è nuovo e sconosciuto” sembrano essere già in atto da tempo. Naturalmente, il nuovo e lo sconosciuto diventano ai giorni nostri una pandemia, un fenomeno migratorio, o comunque, qualsiasi evento sociale in grado di incutere paura. Ciò che il capo di folla vuole, in fondo, è minare la garanzia duratura di un consumismo ipnotico e massivo, che dà a ciascuno di noi l’illusione di un effimero e quotidiano senso dell’esistenza, ma che esime anche da ogni assunzione di responsabilità personale a lungo periodo, che potrebbe configurarsi come un pericoloso allontanamento dal gregge.