Nell’Angelus del 13 agosto 2017 Papa Francesco ha ammonito i suoi fedeli che “quando non ci si aggrappa alla parola del Signore ma si consultano oroscopi e cartomanti, si comincia ad andare a fondo”, parafrasando l’episodio evangelico di San Pietro che tenta di raggiungere Gesù camminando sulle acque del Lago di Galilea, ma poi dubita e affonda.
Forse è il caso di ricordare al nostro pur simpatico pontefice che l’arte divinatoria non nasce come curiosa e ingenua superstizione, ma si è resa necessaria per prevedere le ostilità della natura onde limitare il danno dei raccolti. Non a caso il riferimento fondamentale di tutta l’arte divinatoria, l’I-Ching cinese, il famoso “Libro dei Mutamenti”in cui si descrivevano tutti i possibili stati di mutamento del cosmo, della natura e della vita umana, era concepito come almanacco dell’agricoltura, della pesca e della caccia. E’ anche opportuno ricordare a Bergoglio che nella cultura Maya erano i sacerdoti a possedere tutte le conoscenze scientifiche, astronomiche, astrologiche e religiose (considerate parti di un’unica disciplina), di cui si servivano per regolare la vita della comunità e prevedere il futuro. Anche presso gli antichi Egizi, Sumeri e Greci spettava al saggio sacerdote fare l’oroscopo (da hora-ora, skopein-guardare), ovvero “guardare la posizione degli astri nell’ora di un particolare evento” (come la nascita di un figlio della famiglia regnante, la possibilità di un intervento bellico, la proclamazione di uno Stato, la celebrazione di nozze regali,…), per poi sancire e benedire le possibilità future che da esso ne sarebbero seguite.
E’ altresì opportuno far osservare al sommo pontefice che il secondo arcano maggiore dei tarocchi, la Papessa, è il simbolo di una madre spirituale che porta in sé la saggezza ancestrale dei cicli della natura, che detiene una conoscenza che si eredita dal vissuto e dalle generazioni passate, fatta di misteri occulti, di sensazioni “di pancia” e di percezioni corporee che non sempre vengono apprese da testi scritti. Non è un caso che in quasi tutte le versioni dei tarocchi la Papessa tiene un libro sulle ginocchia ma non ha bisogno di guardarlo, e così il velo che le cinge il capo vuol significare che la vera conoscenza è arcana, simbolica, velata, che non si lascia svelare facilmente alla razionalità umana. Una versione negativa della Papessa è stata assunta negli anni dalle tante streghe bruciate al rogo dalla Chiesa, in quanto detentrici di un sapere pericoloso come quello della pharmakeia, la scienza dei farmaci che guarisce secondo riti magici e sacrificali.
Il velo della Papessa dovrebbe infine ricordare alla massima autorità ecclesiastica che le scienze occulte (tra cui l’astrologia e la cartomanzia), se comprese a fondo, possono svelarci l’arcano dell’esistenza umana. Denigrarle o, peggio ancora, demonizzarle ed esorcizzarle, significa continuare in quell’obsoleta strategia di oscuramento della verità, che ha raggiunto il suo apice nel rifiuto della teoria eliocentrica durato ben 360 anni, periodo che va dal processo di Galileo Galilei (costretto all’abiura delle sue concezioni astronomiche per evitare il carcere) al riconoscimento da parte di papa Giovanni Paolo II degli “errori commessi” dalla Chiesa.
Ma a preoccupare di più, a mio avviso, è la chiusura dell’Angelus. “La Chiesa – spiega Bergoglio – è una barca che, lungo l’attraversata, deve scontrare anche venti contrari e tempeste, che minacciano di travolgerla. Ciò che la salva non sono il coraggio e le qualità dei suoi uomini: la garanzia contro il naufragio è la fede in Cristo e nella sua parola. Su questa barca siamo al sicuro, nonostante le nostre miserie e debolezze”.
Annullare le singole virtù e rendere l’uomo incapace di autoredimersi ha permesso nei secoli alla Chiesa di proporsi come unica via di salvezza, in grado di donarci quella grazia che ci assolve dai peccati in cambio della fede. Ma virtù e peccati andrebbero considerati come normali fasi di un processo psichico individuale, che ciascun essere umano, col coraggio delle proprie responsabilità, è chiamato ad affrontare se vuole differenziarsi come identità unica e irripetibile pur di non naufragare nelle acque tranquille di un conformismo, che dà sicurezza a “miseri e deboli mortali” (usando le parole di Bergoglio) ma non rende certamente liberi.
Come dimenticare il coraggio di tanti alchimisti, condannati con crudeltà dalla Chiesa nel Medioevo, che nella solitudine dei loro laboratori improvvisati, cercavano di redimere se stessi liberando la prima materia dalla corruzione per trasformarla in pietra filosofale. Come dimenticare anche il coraggio di Giordano Bruno, che qualche anno prima di Galilei ha associato alchimia, eliocentrismo e arti magiche per giungere ad una comprensione olisitica e panteistica dei fenomeni naturali e universali. Ma fu un coraggio troppo rivoluzionario per quei tempi, unico inseparabile compagno in quella cupa e silenziosa alba del 17 febbraio 1600 in piazza Campo dei Fiori a Roma, dove lo attendeva inesorabile la fine tragica del rogo, così come deciso da madre Chiesa per punire quei peccatori così audaci che osano uscire dal gregge obbediente dei fedeli.
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