Il valore delle nostre origini

Mi siano permesse alcune considerazioni su mio padre nel giorno della sua festa. Ho spesso riflettuto sul significato che diamo, o forse non abbiamo il tempo di dare, alle cose che circondano la nostra quotidianità. Quando per esempio vado a fare la spesa e metto nel carrello il pane, l’olio, la frutta di stagione, probabilmente il mio unico pensiero è quello di fare la somma di quanto vado a pagare (la parte matematica che in me è sempre desta) e magari di non trovare troppa fila alle casse. Qualche volta però mi vien da pensare alla campagna, ai sacrifici dei contadini che quelle cose le hanno pazientemente prodotte assieme alla benevolenza della natura. Così come mi vien da pensare a mio padre, nato in un contesto rurale di povertà in un paesino della Croazia, ma che oggi, proprio grazie a quel contesto, può dire di vivere felicemente i suoi giorni. Come non notare il suo sorriso soddisfatto quando per esempio racconta dei suoi ulivi che crescono rigogliosi (lui stesso li definisce “le mie creature”); oppure quando porta a casa il pesce che il suo amico ha pescato la mattina stessa e che gli ricorda la gioventù, quella di un pescatore con il sogno di abbandonare la terra natia per raggiungere un destino più sicuro in Italia. Dopo trent’anni di onesto lavoro in fabbrica, quel contesto di povertà che l’aveva catapultato quasi con irriverenza oltreconfine in cerca di un’avventurosa ma dignitosa sopravvivenza, oggi l’ha riaccolto con la ricchezza e i doni che solo la natura sa dare. Il messaggio che ogni volta mi giunge attraverso il sorriso di mio padre è allora che il valore delle origini, vissuto direttamente con le passate esperienze o indirettamente con quelle dei nostri genitori, rimane qualcosa di inestimabile che ci ancora al significato stesso della vita e che dà un senso a ciò che abbiamo ereditato. Concludo con una riflessione del grande Rainer Maria Rilke, scritta all’inizio degli anni Venti e contenuta nelle Lettere da Muzot: “Per i nostri avi una casa, una fontana, una torre, un abito posseduto, erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano. Ora ci incalzano dall’America cose nuove e indifferenti, pseudo-cose, aggeggi per vivere. Una casa nel senso americano, una mela americana, o una vite americana non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui erano riposte le speranze e la ponderazione dei nostri padri.”

 

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