Il mitologo rumeno Mircea Eliade ritiene il sacro come innanzitutto qualche cosa di ganz andere, che nella lingua tedesca significa “completamente diverso”. E poiché non assomiglia a nulla di umano e terreno, il sacro può fare a meno di obbedire alle concezioni ordinarie di spazio e tempo. La stessa parola “consacrare”, sinonimo di “rendere immortale”, dà il privilegio a qualcosa o a qualcuno di sopravvivere nel tempo e in ogni luogo del pianeta. Sempre Eliade, distinguendo tra sacro e profano, suggerisce due categorie radicalmente differenti di spazio e di tempo.
Lo spazio sacro per antonomasia è il luogo in cui è avvenuto l’atto cosmogonico. Tale luogo viene assunto come il naturale Centro (o ombelico) del Mondo, da cui, come in un’esplosione cosmica simile ad un big bang, si sono diradate tutte le possibili molteplicità dei fenomeni. Uno spazio sacro con le medesime caratteristiche di centralità è l’Axis mundi, che collega e sostiene il Cielo e la Terra, e la cui base è conficcata sottoterra sino a raggiungere l’Inferno. Il Centro, qui, è il punto di intersezione della triade Cielo-Terra-Inferno, ed è l’unico luogo spaziale in cui risulta possibile una transizione e una comunicazione tra le tre regioni cosmiche. Da esso, successivamente, irrompono nel Mondo tutte le ierofanie (letteralmente “manifestazioni del sacro”) che si consolidano nel tempo sotto forma di credenze, miti e riti della vita collettiva.
L’atto di creazione del cosmo, in quanto prima irruzione del sacro nel Mondo, diventa a sua volta l’archetipo di ogni azione creatrice dell’uomo, in primis la consacrazione di un territorio appena conquistato. E’ con tale atto, del resto, come osserva opportunamente Eliade, che l’uomo si rende simile agli dèi, ripetendo, in versione circoscritta, l’opera esemplare della cosmogonia, che è l’atto divino per eccellenza. In più, con la scelta esistenziale di un habitat universale, l’uomo trascende al contempo tempo e spazio profani, giacché la scelta è fatta in eterno e in una fissità spaziale che non prevede più spostamenti in futuro. Il Centro esistenziale, consacrato e prescelto per la costruzione della città-cosmo, si scinde successivamente in una molteplicità di Centri coordinati – il tempio, la chiesa, il campanile, il cimitero, il municipio, la piazza principale – in cui la comunità degli uomini si riunisce periodicamente nel rispetto di rituali prestabiliti.
Dice Mircea Eliade: “Se qualsiasi territorio abitato è un cosmo, ciò avviene proprio per il fatto che esso è stato innanzitutto consacrato, perché esso, in un modo o nell’altro, è opera degli dèi, ovvero comunica con il loro mondo. Ogni mondo abitato è allora un universo entro il quale il sacro si è già manifestato.” (Il sacro e il profano, p. 24)
Tutto ciò è reso molto esplicito nel rituale vedico relativo alla conquista di un territorio, che prevedeva l’erezione di un altare del fuoco in onore di Agni. Tale finalità fonda le sue radici nel mito di Prajapati, il creatore del Mondo rimasto senza arti a causa della sua stessa creazione. Mentre tutti gli dèi lo abbandonano, uno spirito vitale a forma di uccello esce da lui e vola ad esortare Agni, il dio del fuoco, affinché si realizzi la ierofania della materializzazione in altare del demiurgo. L’erezione del Centro sacro doveva pertanto replicare la Creazione su un piano microscopico: l’acqua con cui si impastava l’argilla fungeva da Acqua primordiale, l’argilla sulla quale poggiava l’altare era il simbolo della Terra, le pareti laterali rappresentavano l’Atmosfera, ecc. L’altare, peraltro, doveva soddisfare a delle precise regole geometriche, così come era previsto dai Sulvasutra, veri i propri trattati matematici della cultura vedica. La più importante di queste era il principio di invarianza della forma al mutare delle dimensioni, acciocché il divino creatore ricostruito mantenesse qualcosa della sua precedente identità. Lo stesso avviene nel famoso “problema di Delo” degli antichi Greci, risolto dal pitagorico Archita, e che consisiteva nel raddoppiare il volume dell’altare cubico dei sacerdoti di Apollo.
Con la ripetizione dell’atto cosmogonico, non solo lo spazio profano si riorganizza in uno spazio sacro dotato di uno o più Centri, ma anche il tempo ordinario è proiettato in illo tempore, istante sacro in cui è avvenuta la fondazione del Mondo. Lo stesso principio vale naturalmente per tutti i miti successivi all’atto cosmogonico, che hanno stabilito il tempo mitico dell’inizio, quando cioè l’atto divino è stato compiuto per la prima volta. Ogni mito, compreso l’atto cosmogonico, ci riporta dunque in uno spazio sacro e in un tempo sacro, rispettivamente il Centro e l’Inizio di un atto archetipico compiuto da un dio per la prima volta. I riti e le credenze dei popoli hanno avuto poi il compito di rigenerare i miti per mezzo della ripetizione e dell’imitazione degli archetipi divini, dando la possibilità agli uomini di diventare periodicamente contemporanei degli dèi.
In definitiva, è con l’eterno ritorno al mito archetipico che spazio e tempo profano vengono aboliti per via di una consacrazione. Sacro e archetipo, nella visione antropologica di Eliade, divengono perciò sinonimi. Ed è questa stretta analogia, sempre secondo il mitologo rumeno, a dirci che la storia del cosmo non è una sequenza temporale di eventi umani, ma “storia sacra” conservata e trasmessa dai riti, gli unici in grado di rigenerare indefinitamente le società degli uomini nell’acqua battesimale degli archetipi
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